Bologna, Teatro Comunale: “Don Carlo”

Bologna, Teatro Comunale, Stagione d’Opera 2017-18
DON CARLO
Opera in quattro atti, su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, tradotto da Achille de Lauzières e Angelo Zanardini.
Musica di Giuseppe Verdi
Filippo DMITRY BELOSELSKIY
Don Carlo ROBERTO ARONICA
Rodrigo LUCA SALSI
Il Grande Inquisitore LUIZ-OTTAVIO FARÌA
Un frate
LUCA TITTOTO
Elisabetta di Valois MARIA JOSÈ SIRI
La principessa di Eboli VERONICA SIMEONI
Tebaldo NINA SOLODOVNIKOVA
Il conte di Lerma MASSIMILIANO BRUSCO
L’araldo reale ROSOLINO CLAUDIO CARDILE
Una voce dal cielo ERIKA TANAKA
I deputati fiamminghi FEDERICO BENETTI, ALEX MARTINI, LUCA GALLO, PAOLO MARCHINI, ABRAHAM GARCÌA GONZALES, CARLO MALINVERNO
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore 
 Michele Mariotti
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Henning Brockhaus
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Giancarlo Colis
Collaborazione alle luci Daniele Naldi
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 08 giugno 2018
Il “Don Carlo”, cui abbiamo assistito recentemente a Bologna, è senza dubbio uno spettacolo di valore, sostenuto in ogni sua parte dalla sapiente e trascinante concertazione del maestro Michele Mariotti: l’energia, unita alla grande precisione, oltre che la costante attenzione al piano emotivo, che dimostra Mariotti, rendono questa produzione una delle migliori dell’anno, sotto l’aspetto musicale. Il cast segue abbastanza facilmente questa direzione: spicca senza alcun dubbio Dmitri Beloselskiy
un Filippo di grande carattere che, scurissimo quasi “cavernoso” nei centri, abile nella gestione di quella più acuta, è  l’artista più apprezzato sulla scena. Non si può però non notare che la sua impostazione slava tende un po’ a scostarsi dal vero fraseggio verdiano. Buona la prova del baritono Luca Salsi; osannato dal pubblico, come una superstar dell’opera ci si aspetta che lo sia: la voce è solida e incarna Posa con spavalda sicurezza ma i pregi vocali sono frequentemente neutralizzati da un fraseggio piuttosto monotono e stentoreo. D’impatto pure il Grande Inquisitore di Luiz-Ottavio Faria che mostra una tendenza a vociferare  e a cantare a senso unico, ossia con una sola espressione, di generica ed esteriore crudeltà. Coinvolgente, scenicamente presentissima è la Eboli di Veronica Simeoni: dopo un inizio un po’ prudente (La canzone del velo), la Simeoni trova la sua più autentica dimensione e ci regala un personaggio vocalmente sanguigno e vibrante. Valido l’apporto degli artisti impegnati in ruoli secondari: dal vocalmente corretto, ma forse poco enigmatico Frate, di Luca Tittoto, a Massimiliano Brusco (Lerma), a Nina Solodovnikova (Tebaldo), già apprezzatissima interprete de “I Capuleti e I Montecchi” a Rosolino Claudio Cardile (Araldo Reale), Erika Tanaka (Voce dal cielo), Federico Benetti, Alex Martini, Luca Gallo, Paolo Marchini, Abraham García González,  Carlo Malinverno (Deputati fiamminghi). Meno convincenti, paradossalmente, sono invece i due protagonisti: Maria Josè Siri si rialza dalla non brillante interpretazione della “Francesca da Rimini” scaligera, con un’Elisabetta sufficientemente intensa e precisa, anche se nel suo canto manca un reale senso del personaggio, nelle sfumature, della nota veramente patetica, del fraseggio sottile (comunque apprezzabile in “Non pianger mia compagna”).   Di Roberto Aronica (Don Carlo) sono ampiamente note le qualità vocali: timbro argenteo, acuti facili e brillanti, l’interprete però è discontinuo nella linea di canto, così come nel fraseggio e si presta poco alle modulazioni e al canto legato. La messinscena solleva più di un dubbio: le scene di Nicola Rubertelli sono interessanti, fingono la pietra viva e lucida, con effetti cangianti talvolta al limite del buon gusto, anche se altre appaiono affascinanti – in ogni caso ottimamente illuminate da Daniele Naldi; restiamo tuttavia scettici sulla scelta di accostare a questa magniloquenza razionalista gigantografie dell’espressionismo astratto (il tardo Kandinsky, Burri) e quattro cuscinoni con plaid usciti da un qualsivoglia salotto bene dei nostri giorni. La regia di Henning Brockhaus, dal canto suo, pare del tutto slegata da libretto e partitura, talvolta perfino grottesca nella caratterizzazione di alcune parti – c’era davvero bisogno di mostrare Eboli e Filippo a letto insieme, con lei che cerca scambi affettuosi e lui che l’allontana? E di un Grande Inquisitore che si muove su un trono dall’estetica troppo televisiva come un anziano sul suo caddy? I costumi, insoliti, di Giancarlo Colis sembrano riecheggiare Vienne post-asburgiche, divi dell’Ufa, militari decaduti, gangster americani, ma sarebbero stati da preferirsi per lo meno tessuti dai colori meno vistosi e dagli effetti meno lucidi per stornare del tutto il rischio del kitsch in scena, giacché cavare una scelta metodologica da quel novero di idee e stili sembra ormai chiedere troppo. Peccato. Foto Rocco Casaluci