L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Saul, handel

Händel, il teatro dell’oratorio

 di Francesco Lora

Il Theater an der Wien porta in scena il Saul in uno spettacolo-capolavoro con la direzione di Laurence Cummings, la regìa di Claus Guth, l’apporto della Freiburger Barockorchester e dell’Arnold Schönberg Chor, nonché una compagnia di canto dominata da Florian Boesch e spronata a superare sé stessa.

VIENNA, 16 e 20 febbraio 2018 – Nel 1739 la carriera di Händel come autore di opere italiane era ormai tramontata, mentre andava per lui levandosi quella come autore di oratorii inglesi. Quell’anno il pubblico londinese del King’s Theatre in Haymarket ascoltò il nuovo Saul, la partitura col più sfarzoso organico strumentale mai lì eseguita sino a quel momento, e soprattutto un lavoro svincolato dalle ferree dottrine e convenzioni del teatro d’opera. Il libretto è tratto dai racconti biblici senza nemmeno tentare di attuarvi le unità aristoteliche e la regolarità strutturale dell’atto e della scena; la musica, modellata su una compagnia senza divi, obbedisce soltanto a sé stessa e alla sete di libera sperimentazione drammaturgica. Superbo il soggetto, che è la tragedia dell’uomo forte scelto da Dio per essere unto re d’Israele, ma che per volere divino si vede poi sottratto quel ministero irrevocabile. Superbo tutto, per la verità: oratorio e non opera, composto per l’immaginazione e non per la rappresentazione, Saul parla a tutt’oggi con una modernità teatrale senza pari, ed eccita l’estro registico più ancora di un Giulio Cesare, un’Alcina o un Serse. Al Theater an der Wien vi hanno appena confezionato intorno lo spettacolo-capolavoro: sei recite dal 16 al 27 febbraio e una disperata caccia al biglietto.

Recite in senso proprio: l’oratorio è stato eseguito non in forma di concerto, ma con regìa di Claus Guth, scene e costumi di Christian Schmidt, coreografia di Ramses Sigl, video di Arian Andiel, luci di Bernd Purkrabek e drammaturgia di Yvonne Gebauer. Malevoli auspicii prima della “prima”: lo scorso gennaio, l’Opéra di Parigi ha allestito nel Palais Garnier l’ultimo oratorio händeliano, Jephtha, con una regìa pretestuosa, abborracciata e noncurante del limpidissimo discorso musicale; una regìa – ecco il punto – di Guth stesso. Calando il sipario a Vienna, si trasecola invece d’ammirazione dopo aver accompagnato la recita col pianto in gola: una lettura come non mai analitica e tutta svolta nell’ascolto reverente delle musiche, la quale indaga le relazioni affettuose, furiose o paranoiche entro la famiglia reale, sfrutta il palcoscenico rotante del teatro per inseguire spazi mutevoli come nel cinema, fa recitare i cantanti con tanta forza d’immedesimazione da trasfigurare le loro attitudini. Il genio si riconferma nelle licenze prese: come quando, al principio dell’atto III, l’evocazione dell’ombra di Samuele avviene non in un dialogo tra bassi, ossia il profeta e Saul, bensì in un allucinato monologo del re, che interroga sé stesso e a sé risponde, tra esame di coscienza e delirio innanzi a sconfitta, rovina e morte.

Per sostenere la parte protagonistica del Saul giova essere più grande attore che grande cantante: il basso-baritono Florian Boesch dà luogo a una prova indimenticabile per tracotante autorità d’accento, spasmodica energia scenica, capacità d’imporsi nel discorso musicale anche quando, muto, attraversa la scena come spirito compianto dalle figlie, dal popolo, dal legittimo nuovo re. La parte deuteragonistica di David spetta al controtenore Jake Arditti, seducente nell’eroica e pensosa giovinezza dell’incedere, e ora alato ora incisivo nel canto, con ciò dimostrando d’aver appreso più la mordente lezione della scuola italiana che quella flemmatica delle cantorie inglesi. Calcolato al millimetro risulta l’assortimento delle figlie di Saul, con la signorile e distaccata Anna Prohaska nella parte della sprezzante Merab e la commossa e sfumata Giulia Semenzato in quella dell’idilliaca Michal; ma alla recita del 20 febbraio l’indisposizione della prima ha procurato un contrasto ancor più sferzante con la seconda, grazie al caldo temperamento di un’eccellente sostituta dell’ultimo minuto, Carolina Lippo. Ad Andrew Staples, come Jonathan, corrisponde invece la tipica scheda tecnica di tenore britannico dedito al repertorio settecentesco: canto evanescente nel corpo e senza attrattiva timbrica, ma ragguardevole sottigliezza di fraseggio. Le medesime caratteristiche, con qualche eccesso grottesco, ricorrono in Marcel Beekman: su di lui convergono le parti di Abner, del Sacerdote e di Doeg. Di gran classe il cammeo dello squillante sopranista Ray Chenez, già agli annali come Marzia nel Catone in Utica di Vinci, qui investito di una Strega di Endor che diviene l’enigmatica cameriera della casa di Saul, silenziosa per due interi atti e infine sentenziosa testimone delle ultime ore di lui.

Raffinato specialista dello Händel inglese – appunto quello degli anthems e dei grandi oratorii – Laurence Cummings tiene le redini della lettura musicale e in particolare della Freiburger Barockorchester: in essa privilegia aristocraticamente i modi sommessi e la ricerca di colori, anziché gettarsi superficiale sulla vistosa macchina bellica di trombe e timpani. Il più esatto interlocutore delle sue intenzioni consiste nondimeno nell’Arnold Schönberg Chor, preparato da Erwin Ortner e qui miracoloso, oltre il già sgomentante usato, per intonazione, entusiasmo, vocazione di ogni suo elemento a travasare in platea emozione e sapienza di ogni nota cantata. La perfezione.

 foto Monika Rittershaus


 

 

 
 
 

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