L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La grotta di Trofonio di Paisiello, Martina Franca 2016

Il meccanismo della commedia

 di Francesco Lora

Il Festival della Valle d’Itria commemora il bicentenario paisielliano con l’inedita Grotta di Trofonio. La compagnia di canto è la più geniale schierata nel corso dell’intera rassegna; in testa: Scandiuzzi, Mazzucato, Colaianni e Caoduro.

MARTINA FRANCA, 31 luglio 2016 – Il 12 ottobre 1785 Giovanni Battista Casti e Antonio Salieri consegnavano alle scene del Burgtheater di Vienna La grotta di Trofonio: un’opera con successo immediato e duraturo; buffa sì, ma erudita nei riferimenti letterari, nelle simmetrie teatrali e nelle mire pedagogiche. Nel novembre dello stesso anno, il libretto era già stato sconquassato da Giuseppe Palomba per essere rimusicato da Giovanni Paisiello e trionfare al Teatro dei Fiorentini di Napoli: nella sala partenopea le sottigliezze dei philosophes interessavano assai meno delle buffonerie farsesche presiedute dall’esilarante basso Antonio Casaccia; la studiata architettura dell’originale cedette così all’effetto ridicolo immediato e alla battuta da avanspettacolo, la parte del mattatore fu convertita in lingua napoletana e due personaggi femminili di peso furono introdotti per dare adito a un quadruplo matrimonio finale. Anche in questa più popolare veste, La grotta di Trofonio girò l’Europa: la facevano forte le musiche di Paisiello, qui oltremodo amabili, semplici e brillanti, atte più a compiacere il pubblico che a pretendere da esso, eppure non prive di strutture ambiziose (si pensi all’imponente macchina del Finale I).

Col preciso scopo di resuscitare un titolo paisielliano mai eseguito in età contemporanea, e per commemorare nel contempo i duecento anni dalla morte del compositore tarantino, il XLII Festival della Valle d’Itria si è dunque inaugurato proprio con La grotta di Trofonio: due recite nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, il 14 e il 31 luglio, con una vistosa discontinuità di esiti attraverso la locandina. Le redini del discorso musicale, affidate al direttore Giuseppe Grazioli, sono infatti da lui tenute non più che con mestiere onesto: la monotona lutulenza dell’incedere nell’accompagnamento, la povertà del gioco ritmico, evocativo e narrativo, nonché la sostanziale indifferenza verso il contributo retorico, attoriale ed espressivo dei cantanti, tutti insieme si accontentano di una lettura sommaria e di gusto obsoleto, che riesce a tarpare il volo alla commedia di per sé esuberante ed esplosiva; l’Orchestra internazionale d’Italia, sorprendente per sollecitudine tecnica nelle vicine recite di Così fan tutte e Francesca di Rimini, si riduce qui, suo malgrado, a un’ombra.

A riscattare la mancanza non basta l’allestimento con regìa di Alfonso Antoniozzi, scene di Dario Gessati e costumi di Gianluca Falaschi. Tutto dimostra impegno, conoscenza e avvedutezza, dal gioco di citazioni teatrali, cinematografiche o semplicemente culturali – il parodiato malgusto del barone Guglielmo von Gloeden, che batteva Grecia e Magna Grecia illudendosi di fotografare la classicità perduta – all’idea di far uscire i personaggi dalle illustrazioni di enormi libri aperti. Questi sforzi paiono però anche un’excusatio non petita: si intravvede il disagio di trattare l’opera per la ridanciana e sconclusionata cozzaglia drammaturgica che è, e balena dunque il tentativo pericoloso e vano di trasferirla su un registro teatrale più alto ma sviante.

A riportare i conti in attivo provvede la più geniale compagnia di canto schierata nel corso dell’intera rassegna: in essa si vede come le referenze personali di una carriera gloriosa o promettente si accompagnino sempre al lavoro d’assieme nel meccanismo della commedia. Si esulta di fronte al Trofonio di Roberto Scandiuzzi, onnipotente voce di basso come ormai la natura non ne produce più, ancora splendida per smalto da un capo all’altro dell’estensione, qui però asservita – favoloso scialo – alla divertita e cordiale ironia di un Filippo II in libera uscita comica. Si esulta di fronte alla Madama Bartolina di Daniela Mazzucato, la quale è l’erede prima e inossidabile della tradizione di primedonne buffe all’italiana, discesa attraverso Alda Noni, Graziella Sciutti e Luciana Serra, e oggi arenatasi nello star system internazionale. Si esulta di fronte al Don Gasperone di Domenico Colaianni, che con quel canto scabro e materico, con quel gioco di fisicità disinibita e con quell’avventura a capofitto nel vernacolo partenopeo è oggi l’unico possibile trascinante epigono del Casaccia che fu. E si esulta di fronte al Don Piastrone di Giorgio Caoduro, baritono puro in una parte un poco più profonda del comodo, ma esempio perfetto di come la scuola di canto, di teatro, di misura e di gusto possa proseguire, perpetuando e reinventando, nel senno della nuova generazione. Non è un caso che i restanti quattro più giovani elementi della compagnia avvalorino il gruppo senza lasciarsi bagnare il naso dai colleghi con più esperienza e fama: di Benedetta Mazzucato, come Dori, rimangono alla mente la scherzosa disinvoltura attoriale e il sorriso che sempre ne caratterizza il porgere; di Caterina Di Tonno, come Rubinetta, rimangono alla mente la spigliata figura rubinconda e l’aria cantata con più malizia in tutta la recita; di Matteo Mezzaro, come Artemidoro, rimangono alla mente un timbro con paradisiaco bouquet di armonici nonché i subitanei cambiamenti di umore teatrale; di Angela Nisi, come Eufelia, rimangono infine alla mente un’organizzazione vocale dotata, integra e rigorosa, e la capacità di fare con essa il ritratto stesso del personaggio. Chi oserà modificare questa distribuzione, il prossimo novembre, nelle recite al teatro di corte del Palazzo Reale di Napoli?


 

 

 
 
 

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