Martina Franca, Festival della Valle d’Itria 2016: “La grotta di Trofonio”

Martina Franca, Palazzo Ducale
“LA GROTTA DI TROFONIO”
Commedia per musica, libretto di Giuseppe Palomba da Giovanni Battista Casti
Musica di Giovanni Paisiello 
Dori BENEDETTA MAZZUCATO
Rubinetta CATERINA DI TONNO
Artemidoro MATTEO MEZZARO
Don Gasperone DOMENICO COLAIANNI
Eufelia  ANGELA NISI
Madama Bartolina  DANIELA MAZZUCATO
Trofonio  ROBERTO SCANDIUZZI
Don Piastrone GIORGIO CAODURO
Orchestra Internazionale d’Italia
Direttore Giuseppe Grazioli
Regia Alfonso Antoniozzi
Scene Dario Gessati
Costumi Gianluca Falaschi
Disegno luci Camilla Piccioni   
Martina Franca, 14 luglio 2016
La quarantaduesima edizione del Festival della Valle d’Itria si apre omaggiando Giovanni Paisiello a  200 anni dalla sua morte. È giusto precisare tuttavia che il festival di Martina Franca, a prescindere da questo anniversario che ha in qualche modo indotto molti teatri ed enti lirici a vari ripescaggi paisielliani, fin dall’allestimento della Nina nel 1978 ha riservato al compositore tarantino un’attenzione costante, permettendo di restituire al vivo ascolto ben otto titoli tra drammi seri, buffi e oratorii. La scelta è caduta sulla Grotta di Trofonio (co-prodotta con il Teatro San Carlo di Napoli) commedia per musica composta da Paisiello – reduce dal servizio alla corte della zarina Caterina II e dal successo del Re Teodoro in Venezia scritto sulla strada del ritorno verso Napoli per la corte viennese di Giuseppe II – nel 1785 per il Teatro dei Fiorentini di Napoli su un libretto di Giuseppe Palomba che modificava l’omonimo dramma giocoso dell’abate Giovanni Battista Casti musicato a Vienna dal Kapellmeister Antonio Salieri. Un titolo, quindi, indicativo del ‘Paisiello europeo’ e di quella dimensione cosmopolita che il melodramma comico nostrano acquisì grazie sia all’accoglienza tributatagli dalle principali corti d’Europa, sia ai complessi processi di riscrittura dei grandi modelli teatrali d’Oltralpe (Molière in primis). Rispetto alla partitura di Salieri quella paisielliana conobbe una diffusione più limitata ma non trascurabile: replicata a Mestre, Treviso e Udine (1786), Malta e Palermo (1787), Monza e Milano (1788), fu rappresentata con i recitativi parlati in lingua francese a Versailles (1788) e in lingua tedesca a Vienna (1787) e Bolzano (1789), per poi ritornare in scena a Napoli, sempre ai Fiorentini, nel giugno 1789. Ultima illustre tappa fu la Parigi di Napoleone che scelse quest’opera per l’inaugurazione del nuovo Théâtre de l’Impératrice il 30 giugno 1804.
L’ambientazione della Grotta di Trofonio è particolare; la vicenda si svolge infatti nella Grecia ottomana del XVIII secolo, non quella classica, vagheggiata dai borghesi arricchiti e smaniosi di esibire la propria acculturazione, mitizzata da quei filosofi ‘finti’ o ‘immaginari’ di cui pullula la librettistica settecentesca e che individuano il campione nel don Tammaro del Socrate immaginario di Galiani-Lorenzi-Paisiello (1775). Il libretto di Palomba allude infatti a caffettieri, locandiere e mercanti emigrati da Napoli a Libadia in Beozia (città del culto oracolare di Trofonio) per cercare fortuna; si tratta di una classe mercantile realmente esistita che alla fine del ‘700 ingrossò le fila di chi immaginava un moderno stato greco indipendente, uomini e donne ben diversi dagli astratti aristocratici protagonisti delle schermaglie galanti di conio goldoniano. Inedita per l’opera buffa italiana è anche la dimensione magico-sovrannaturale che contrassegna Trofonio (il disegno luci di Camilla Piccioni avrebbe potuto essere più elaborato per le scene evocative e spettrali) e il suo ruolo di burattinaio-régisseur (esplicitato dal regista durante un concertato dove Trofonio, che non canta, muove a mo’ di marionettista i quattro personaggi che tiene in pugno), per certi aspetti accostabile più allo spiritello dell’Osteria di marechiaro (Cerlone-Paisiello, Napoli 1769) che al Don Alfonso di Così fan tutte. Lo stesso ‘bosco’ è un luogo poco frequentato dal melodramma comico per via di una connotazione antropologica (si pensi alla coeva tradizione fiabesca!) che lo rende il luogo dello smarrimento di quanto v’è di razionale e controllabile, lo spazio di pertinenza ferina (non a caso Trofonio viene scambiato per un orso; e sempre l’orso è lo spauracchio negli Stravaganti, uno dei rari libretti napoletani che colloca più d’una scena in un fitto e inquietante bosco). La regia di Alfonso Antoniozzi, le scene di Dario Gessati e i costumi di Gianluca Falaschi sembrano eludere queste suggestioni per esaltare la risibile grecomania tipica di tanti altri libretti buffi, ricorrendo al kitsch del parvenu citazionista (sul grembiule della locandiera è stampato il Partenone), al suo gusto da cartolina (l’Eretteo con le cariatidi s’impone all’occhio dello spettatore) fino al grottesco tout court (i figuranti in tuniche e sandali all’antica). All’erudizionismo affettato che contrassegna i personaggi di Eufelia e Don Piastrone alludono gli enormi libri che nel disporsi orizzontalmente permettono di articolare tre spazi di azione sul proscenio, mentre verticalmente consentono le numerosissime entrate e uscite di scena (i cantanti entrano letteralmente nelle illustrazioni di soggetto greco classico realizzate da teloni forati da grandi asole). Antoniozzi ha ben condotto i movimenti degli attori nei concertati lasciando emergere un gusto per la gag gestuale sempre ben misurato e chiaro; così come chiare sono le sue note di regia con apprezzabile sintesi spiegano gl’intenzionali riferimenti all’avanspettacolo, ai due Eduardo (Scarpetta da un lato, dall’altro il De Filippo capace di ritrarre ogni stato dell’animo umano indossando la maschera di Pulcinella), a Nino Taranto e, più in generale, a una comicità tutta gestuale che all’epoca di Paisiello era magistralemente gestita dalla famiglia dei Casaccia. Oggi essa fa perno sulla verve istrionica di Domenico Colaianni, capace di padroneggiare il ruvido dialetto napoletano di Don Gasperone e di renderlo comprensibile attraverso l’arte del gesto. Come Casaccia al solo presentarsi sul palcoscenico dei Fiorentini muoveva il pubblico al riso, così la fisicità di Colaianni, che calibra con studiata sapienza attoriale ogni movimento del suo corpo, da sola assicura il divertimento; ad essa si aggiunge il surplus di una voce potentissima e duttile, a proprio agio nella declamazione dei recitativi, nel canto spianato dei segmenti più melodici delle arie, come pure nei rapidissimi sillabati (che fan pensare già a Rossini) impiegati soprattutto nei concertati. Colaianni/Don Gasperone è dunque il perno attorno al quale ruota la costellazione dei personaggi, il fulcro che garantisce la tenuta di una drammaturgia in verità piuttosto esile (e talvolta ben poco aiutata dagli stacchi di tempo troppo lenti presi dal direttore Giuseppe Grazioli). Le quattro voci femminili (Palomba aveva aggiunto Madama Bartolina e Rubinetta al libretto di Casti) hanno ben reso i relativi personaggi: Benedetta Mazzucato (unica nel cast a provenire dall’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti”) inizialmente un po’ metallica ha trovato nel corso dell’opera una giusta misura per dare corpo sonoro alla svampita Dori e di certo l’ha sorretta una spigliatezza nella gestione dello spazio scenico, evidente nell’episodio metateatrale che vede mutare il personaggio in canterina dopo l’ingresso nella grotta. Angela Nisi peccava forse nel concedere alla sua Eufelia una vocalità già proiettata nel belcanto ottocentesco: ci si riferisce in particolare alle cadenze, a certo eccesso di volume sonoro sugli acuti, all’assenza di quelle brevi messe di voce che avrebbero potuto rendere stilisticamente più adeguata la sua interpretazione. Bellissimo il timbro di Caterina Di Tonno, una Rubinetta deliziosa che non necessita di scendere in platea per affascinare il suo pubblico. Nella voce (sempre ben proiettata e di squisita sonorità) e nel gesto di Daniela Mazzucato la tradizione del melodramma comico e dell’operetta paiono fondersi dando luogo a una vitalità che ha impreziosito Madama Bartolina, personaggio non immune dal rischio di ridondanza. Tanto squillante la voce di Giorgio Caoduro (quasi baritenorile nei passaggi acuti) – un ottimo Don Piastrone capace di realizzare una medietas tra la caricaturalità di Don Gasperone e gli sconfinamenti nell’ambito ‘serio’ di Artemidoro ed Eufelia – quanto piena e profonda quella del basso Roberto Scandiuzzi, alle prese con vertiginose discese verso il grave che parodizzavano l’allure sacerdotale del protagonista eponimo. Buona la prova del tenore Matteo Mezzaro (Artemidoro), al quale si richiede una cura maggiore delle dinamiche della sua parte, sempre sul crinale dello stile da opera seria. Da parte di Giuseppe Grazioli alla guida dell’Orchestra Internazionale d’Italia ci si sarebbe aspettati una maggior cura dei colori orchestrali e, come già detto sopra, un’agogica più decisa e meglio modellata sull’attorialità di cui la partitura paisielliana trasuda. Davvero ottimo per ricchezza d’informazioni e acume critico è il saggio di Luisa Cosi, curatrice dell’edizione critica della partitura, che correda il libro di sala, a dimostrazione di quanto il Festival della Valle d’Itria sia anche uno spazio prezioso per la musicologia applicata. Numeroso e come sempre entusiasta il pubblico che ha riservato a tutti gli artisti un caloroso e prolungato applauso.