61° Festival Puccini, Torre del Lago: “Tosca”

Gran Teatro Giacomo Puccini – 61° Festival Puccini
TOSCA”
Opera in tre atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca  DANIELA DESSÌ
Mario Cavaradossi  AQUILES MACHADO
Il Barone Scarpia  ALBERTO MASTROMARINO
Cesare Angelotti  LUIGI RONI
Il Sagrestano  ANGELO NARDINOCCHI
Spoletta  UGO TARQUINI
Sciarrone  VELTHUR TOGNONI
Un carceriere  PEDRO CARILLO
Un pastore  MARCO RIMICCI
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Direttore Valerio Galli
Maestro del Coro  Stefano Visconti
Scene  Mimmo Paladino
Regia  Giorgio Ferrara
Luci  Cesare Accetta
Nuovo allestimento
Torre del Lago, 24 luglio 2015
Sarebbe impossibile, anche volendolo, passare sotto silenzio le vicissitudini che stanno travagliando il Festival Puccini da un mese a questa parte, se non altro perché hanno avuto enormi ripercussioni sullo spettacolo inaugurale, un nuovo allestimento di Tosca. Qui mi limiterò a illustrare a grandi linee gli avvenimenti mantenendo una posizione assolutamente neutrale, anche perché le informazioni in mio possesso, quelle finite sugli organi di stampa, non sono altro che la classica punta dell’iceberg. E dunque, a fine giugno il neo sindaco di Viareggio Giorgio Del Ghingaro decide, come del resto è sua prerogativa, di azzerare i vertici del Festival e di sostituire la Presidente  Adalgisa Mazza, la quale aveva chiesto di poter rimanere almeno fino alla conclusione della presente sessantunesima edizione ormai alle porte. Il sindaco accetta, solo per fare retromarcia solo alcuni giorni dopo, nominando Alberto Veronesi (in passato direttore artistico del Festival), il quale in data 7 luglio, congeda, a prove già iniziate, la regista della Tosca inaugurale, Vivien Hewitt. Non è questa la sede per illustrare i motivi di tale allontanamento, né degli accordi raggiunti con la regista in queste ultime ore onde evitare strascichi giudiziari.  Al suo posto Veronesi convoca Giorgio Ferrara, regista di provata esperienza e chiara fama.  Per motivi finanziari (a quanto pare il il Comune di Viareggio non ha elargito i 200.000 euro promessi) Veronesi apporta significanti modifiche anche agli altri spettacoli, di cui parlerò in dettaglio nelle mie prossime recensioni degli stessi, invitando inoltre gli artisti ad accettare riduzioni significative nei loro cachet.  Alcuni si ribellano e scrivono alle istituzioni.  Tosca perde l’interprete di Scarpia, il previsto Giovanni Meoni, sostituito da Alberto Mastromarino.  Inoltre ad accanirsi su questa Tosca interviene una banale indisposizione, quella di Fabio Armiliato: Aquiles Machado arriva a Torre del Lago verso le 13 della data inaugurale.   Questo l’antefatto, e adesso la recensione.  Non mi è dato sapere come Vivien Hewitt avesse ideato l’allestimento, ma resta il fatto che così come presentata da Giorgio Ferrara, questa Tosca è stata poco più di un’opera in forma di concerto; assente era un qualsivoglia concezione, ed è quindi lecito parlare di una “Tosca di Mimmo Paladino”, il celebre scultore cui è stata affidata la scenografia. I cantanti agivano con movimenti del tutto prevedibili, con gesti importati da chissà quante altre produzioni precedenti, in mezzo a scene, se non proprio antiestetiche, quanto meno discutibili, nonostante l’alto prestigio e spessore artistico di Paladino.  Se i costumi (bellissimi quelli della protagonista ma non accreditati nella locandina) ponevano l’azione nel 1800 come da libretto, le scene avevano un sentore vagamente moderno.  Sant’Andrea della Valle pareva l’interno una di quelle chiese moderne spuntate come funghi nelle periferie italiane negli anni ’60/’70, in cui troneggiavano, da sinistra verso destra, solo tre elementi architettonici: un altare, un portale di marmo con una raffigurazione dell’Eucarestia, e una specie di parallelepipedo irregolare di cui francamente mi sfugge il significato (forse un pianeta come quello del terzo atto?)  Ancor meno attraente era la scena del secondo atto, costituita da tre pareti (che almeno avevano il pregio di creare una situazione acustica favorevole) segnate da linee rosse e sui cui penzolavano decine disegni identikit di ricercati dalla polizia. Nel terzo poi troneggiava solo una gigantesca sfera, che si apriva solo per permettere a Tosca di salire le scale e gettarsi nel vuoto. La sfera nelle dichiarate intenzioni di Paladino rappresenta un asteroide, un meteorite pieno di stelle che luccicano durante la romanza di Cavaradossi, e che si apre appunto per lasciar passare la stella più sfologorante, la Tosca.  Oppure la stella cui ci si riferisce era proprio Daniela Dessì, una delle luci più brillanti del firmamento lirico italiano degli ultimi decenni, alle prese con il ruolo che ha più di ogni altro caratterizzato la seconda parte della sua lunghissima carriera; tanti anni di attività hanno inevitabilmente lasciato il segno, riscontrabile l’altra sera soltanto in alcuni acuti dal sapore metallico; per il resto la Dessì, in un autentico stato di grazia, ha delineato una Floria Tosca pressoché ideale, soprattutto sotto un livello interpretativo.  Innanzitutto è da sottolineare l’ottima tecnica dell’antica scuola italiana che le permette di far galleggiare il suono e produrre un registro centrale (ed è lì che si gioca essenzialmente questa parte) morbido, carezzevole: la sinuosità di frasi come “Finché congiunti alle celesti sfere” rendeva veramente visibile e palpabile l’idea delle “nuvole leggere”.  Ho un mio modo per giudicare sin da subito la validità di una Tosca, ovvero il modo in cui affronta il primo vero scoglio dell’opera, la salita al si bemolle acuto di “le voci delle cose”, frase ostica che la Dessì ha risolto con eleganza persino attardandosi morbidamente sulla nota in questione.  Fra i numerosi do acuti che costellano la partitura, solo un paio erano striduli e poco raccolti; quello temibilissimo “della lama” era al contrario una sciabolata sonora e penetrante, lunga e sicura.  La sfortuna ha continuato ad accanirsi proprio durante il “Vissi d’arte”, quando improvvisamente è iniziato fra il pubblico un trambusto, un “andare e venire” culminato con l’apparizione di una barella usata per trasportare fuori dalla sala uno spettatore, evidentemente colto da un malore, seduto proprio nel primo settore e quindi visibile dalla cantante, la quale ha continuato con grande auto-controllo e nervi saldi la propria romanza in modo encomiabile, cedendo poi alle insistenti richieste di bis.  Incredibile coincidenza, un episodio simile si era verificato due anni fa, sempre durante il “Vissi d’arte”, all’epoca interpretata da Oksana Dyka. Molto efficace nella sua naturalezza il celebre “E avanti a lui tremava tutta Roma”, e apprezzatissima  la decisione di cantare tutte le frasi tradizionalmente parlate o gridate (“Quanto?” “Il prezzo!”), scelta molto probabilmente concordata o suggerita dal direttore d’orchestra in quanto anche Scarpia ha finalmente intonato i re e i la naturali di “Ma fatelo tacere”.  Quest’ultimo era appunto interpretato da Alberto Mastromarino, anch’egli veterano del ruolo, visto e recensito proprio nella suddetta ultima edizione di Tosca a Torre del Lago.  Come già due anni fa, Mastromarino, a dispetto dell’imponente presenza fisica, ha ritratto un capo della polizia tendenzialmente misurato, sobrio, consapevole che una persona di potere non ha bisogno di sbraitare per farsi obbedire o incutere terrore, e tale visione del personaggio si è estesa anche all’interpretazione vocale.  Tanto più efficace è quindi l’esplosione scenico-vocale del monologo “Se la giurata fede debbo tradire”, in cui Scarpia si toglie la maschera e scopre le proprie carte.  Aquiles Machado è, come si è accennato prima, giunto il giorno stesso della rappresentazione, per cui esitazioni e incertezze relative ai tempi sono più che comprensibili.  Rimane il fatto che il volume del tenore venezuelano, ottimo Rodolfo al Festival Pucciniano alcuni anni or sono, è troppo limitato per Cavaradossi, soprattutto se messo a confronto con un soprano dalla voce non enorme ma dai centri squillanti come la Dessì, che di fatto nei duetti lo copriva implacabilmente.  Si sono anche udite preoccupanti oscillazioni negli acuti, al momento abbastanza contenute ma che non lasciano presagire bene per il futuro, e i due momenti strappa-applausi, “La vita mi costasse”, e “Vittoria!” hanno richiesto notevole sforzo, soprattutto il secondo.  Fra i ruoli secondari ha destato perplessità la scelta del settantatreenne Luigi Roni nei panni di Angelotti: d’accordo che il carcere l’abbia assai provato, ma a questo punto ci viene spontaneo chiedersi quanti anni abbia la sorella, la tanto discussa e ammirata Marchesa Attavanti.  Completavano il cast Angelo Nardinocchi (Il Sagrestano), Ugo Tarquini (Spoletta), Velthur Tognoni (Sciarrone), Pedro Cirillo (Carceriere) e Marco Rimicci (un pastore). Valerio Galli, giovane direttore viareggino, felicemente smentendo la ben nota locuzione, è sin dagli esordi un “profeta in patria”, dal momento che da vari anni appare nel cartellone del Festival, toccandogli quest’anno l’onore dell’inaugurazione.  L’ho recensito molte volte, e non posso fare a meno di osservare che il suo considerevole talento continua ad affinarsi nel tempo.  Galli ha offerto una lettura lirica e spaziosa della partitura, senza però temere di premere forte sull’acceleratore per portare alla luce e dar vita ai grandi momenti dell’opera con una potenza tonante, sonora che però – e questa è la grande maestria – non si è tramutata in cacofonico fragore, mantenendo pur nella più orgiastica frenesia una cristallina nitidezza orchestrale  Esemplare al riguardo è stata la lettura del “Te Deum”, una delle più ostiche scene di massa di tutta la letteratura operistica, reso appunto con suono rotondo e pulito pur nella sua esplosione sonora. Ancora una volta non posso fare a meno di sottolineare le sue qualità di concertatore, soprattutto per la capacità di intuire con anticipo le difficoltà dei cantanti e, per quanto possibile, porvi rimedio.
Nonostante le premesse poco rassicuranti il Gran Teatro all’Aperto Giacomo Puccini era gremito in ogni ordine di posti come non avveniva da tempo immemore, e l’atmosfera che si respirava (a parte l’umidità tanto soffocante da potersi tagliare a fette) era quella dei tempi andati, con ammiratori eufemisticamente molto partecipi che non hanno mancato di applaudire la diva all’ingresso in scena o di manifestare entusiasmo subito dopo certe frasi chiave isolate come “Egli vede ch’io piango”. Foto Giorgio Andreuccetti