L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Cos’è questa commedia?

 di Francesco Lora

Al Theater an der Wien, Le nozze di Figaro vanno in scena rispolverando l’idea del teatro nel teatro e toccando un esito registico solo parziale. Marc Minkowski e Les Musiciens du Louvre assicurano una lettura musicale di classico equilibrio, ma la compagnia di canto trova un ostacolo nella lingua italiana e nella parola scenica.

VIENNA, 18/04/2015 – Nella capitale austriaca, il Theater an der Wien lavora in rapporto complementare con l’Opera di Stato, e impronta ampia parte del proprio cartellone ai criteri di un festival, con proposte rare, letture inedite e temi conduttori nel corso della stagione. Per esempio, quest’anno sono presentate tre trasposizioni operistiche dei tre lavori teatrali di Pierre Augustin Caron de Beaumarchais sulle vicende di Figaro: in febbraio è stata la volta del raro Barbiere di Siviglia di Paisiello e in maggio sarà quella dell’ancor più rara Mère coupable di Darius Milhaud. In mezzo, è attualmente il turno delle Nozze di Figaro di Wolfgang Amadé Mozart: sei recite, dall’11 al 22 aprile, per un’opera universale qui servita con pretese di novità.

Le pretese sono innanzitutto drammaturgiche. Il regista Felix Breisach, lo scenografo Jens Kilian e la costumista Doris Maria Aigner pongono infatti che in un istituto di psicoterapia lo specialista responsabile, identificato nel potente Conte d’Almaviva, analizzi i suoi assistiti, identificati negli altri personaggi, in giochi di ruolo su soggetto operistico dato. Si lavora così di teatro nel teatro, ancora una volta e con pretesto: l’idea, tanto più se praticata in tal modo, si potrebbe infatti applicare a qualsiasi testo teatrale. Accade poi che gli assistiti obbediscano al disegno, e che in esso lo psicoterapeuta abbia libertà di supervisione e abuso. Finché il gioco non gli scappa di mano: assistiti e personaggi finiscono col sovrapporre e confondere tra loro i rispettivi caratteri, mentre monta in loro la volontà di ribellarsi e istituire un nuovo ordine.

Il progetto drammaturgico, fischiato dall’alto del loggione, non è in realtà da liquidare con disprezzo; procura anzi interessanti spunti d’analisi: di certo, esso è stato condotto su un attento esame dei testi anziché – come spesso accade, e soprattutto in area austro-tedesca – su un loro preconcetto. Difetto è tuttavia il mettere a punto uno statico identikit psicologico di ciascun personaggio, e sottoporre a critica antifrastica numerosi passi del libretto, disattivando nel contempo l’azione che coglie i personaggi nel loro dinamico assortimento. Si apprende qualcosa di più sull’elenco delle dramatis personæ, ma si finisce con l’intravedere a malapena il dramma che essi innescano. È un progetto di dissezione ove, al momento della ricomposizione, qualcosa della materia iniziale è andato dissolto senza essere compensato.

Rispetto alla parte visiva, la direzione musicale si mantiene super partes. Marc Minkowski dirige i suoi Musiciens du Louvre con classico equilibrio: in quegli strumenti originali v’è più disegno d’articolazione che colore in timbri e umori. Si apprezzano finezze ignote anche a molti patentati di filologia: non sempre ma spesso, compaiono le appoggiature in recitativi e “numeri” chiusi; non sempre ma spesso, i recitativi secchi sono sostenuti non già dal clavicembalo, bensì da un fortepiano – udite! – in trio con violoncello e contrabbasso; non sempre ma spesso, i “numeri” chiusi sono attaccati in cadenza ai recitativi che li precedono; non spesso ma sempre, il fortepiano agisce non solo nel basso continuo ma anche nei “numeri” chiusi, come strumento accompagnatore che rimpolpa con improvvisazione estemporanea la trama armonica e il corpo orchestrale. Tutte cose stilisticamente dovute, tutte cose oggi di norma ignorate, tutte cose che piace veder realizzate anche solo in parte.

Sospesi tra il rigore della direzione musicale e gli ostacoli della visione registica, i cantanti hanno qui gioco non facile. La sfida è quella di collocare con pari valore la loro interpretazione tra ciò che le due parti richiedono in vicendevole contraddizione: indossare il testo in quanto tale su un fronte, straniarsi criticamente da esso sull’altro. Vince chi gioca la carta dell’amabilità, dell’ironia e del divertimento, come Helene Schneiderman nei panni di una Marcellina insolitamente morbida e cordiale: in fondo, i panni sono quelli dell’intraprendente madre di Figaro o, secondo la prospettiva, lo spasso di un’anziana in terapia. Il colmo del magistero è in uno solo, secondo previsione e per ragioni che hanno il loro mistero in comune con l’acqua calda: Alex Esposito è un Figaro di riferimento dei nostri giorni innanzitutto per il fatto di essere italiano, per istinto anagrafico e per formazione artistica. Legge, dice, flette la parola e su essa veicola l’umore del personaggio in ogni sua realistica inflessione: egli ricorda così come l’imitazione del vero, per quanto in situazione non ordinaria, sia alla base del genere della commedia. Il canto non ha pecca, ma per precisa e non errata scelta sembra mantenersi entro il piano laddove la parola giunge forte. È così annullata la gerarchia tra una pagina e l’altra: l’aria finale dell’atto I o il recitativo più passeggero ricevono la medesima cura, in nome di un progetto che mira al personaggio e non all’applauso strategicamente convogliato verso il brano di successo.

Intorno a Esposito, i colleghi si dispongono come satelliti. Alla Susanna di Emőke Baráth, adolescenzialmente scontrosa, si contrappone la Contessa d’Almaviva di Anett Fritsch, tanto femminile e algida quanto risentita e sarcastica. Funzionali sono Ingeborg Gillebo come Cherubino, Peter Kálmán come Bartolo, Sunnyboy Dladla come Basilio e Don Curzio, Gan-ya Ben-Gur Akselrod come Barbarina e Zoltán Nagy come Antonio. La sorte di ciascuno è tenuta in ostaggio dalla parola: quella che per Esposito è una strada ferrata sulla quale sfrecciare, per gli altri è un viottolo sassoso ove impantanarsi. Nel migliore dei casi, l’interprete ricama calligraficamente sulle singole sillabe di una lingua che non conosce abbastanza, lì distribuendo à l’aventure l’espressione di un generico affetto suggerito dal maestro ripetitore. Nel peggiore dei casi, recitativi e “numeri” chiusi divengono di bocca in bocca affastellamenti faticosi e informi di fonemi. Nell’uno e nell’altro caso, dall’artefazione all’imperizia, viene a mancare il fluire naturale dell’eloquio e l’espressione cangiante e sfuggente di un carattere umano. Il problema è ad ampio raggio, se è vero che lambisce persino un fior di baritono come Stéphane Degout, il Conte d’Almaviva: l’attore ha intelligenza da vendere e il cantante ha mezzi e tecnica importanti; eppure, molte occasioni di sfumatura impugnate nel gesto rimangono monotonia o divengono eccesso, prima nella parola e poi nel canto che la accoglie. Ma v’è ancora chi crede che Salisburgo e Vienna tengano l’eredità teatrale di Mozart.

foto Herwig Prammer


 

 

 
 
 

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