Salerno, Teatro Verdi: “Les pêcheurs de perles”

Salerno, Teatro Giuseppe Verdi, Stagione Lirica 2012
“LES PÊCHEURS DE PERLES”
Opera lirica in tre atti su libretto di Michel Carré e Eugène Cormon
Musica di Georges Bizet
Léila DESIRÉE RANCATORE
Nadir CELSO ALBELO
Zurga LUCA GRASSI
Nourabad ALASTAIR MILES
Orchestra Filarmonica Salernitana Giuseppe Verdi
Coro del Teatro dell’Opera di Salerno
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Luigi Petrozziello
Regia Riccardo Canessa
Scene Flavio Arbetti
Costumi Patrizia Balzerano
Coreografie Pina Testa
Light designer Fabrizio Ganzerli
Artista video Jean-Baptiste Warluzel
Nuovo allestimento del Teatro “Giuseppe Verdi” di Salerno
Salerno, 20 maggio 2012

L’esordio operistico del ventenne Bizet è in larga parte di disarmante bellezza, seppure la partitura nella sua pura semplicità sia costruita con manifattura ancora “casalinga”. Pochi temi vi si susseguono ma disposti e incatenati con sapienza e grande equilibrio; una partitura nella quale è già innestata anche quella componente esotica che sarà la fortuna della più matura Carmen. Se musicalmente, per dirla  con le parole di Berlioz, l’opera «contiene un numero considerevole di pezzi espressivi pieni di fuoco e ricco colorito», dal punto di vista del plot il soggetto non varca i rigidi confini imposti dal canonico triangolo, con sole due “licenze”: da un lato l’amicizia forte fra i due protagonisti maschili, dall’altro il complesso rapporto fra la sacralità del voto, l’umanità e la carnalità dell’amore nella protagonista femminile.
Ad ogni buon modo, il pubblico di Salerno rapito proprio da questa colta semplicità,  accoglie la novità (l’opera va in prima assoluta, ndr) con dionisiaco entusiasmo, invitando più volte gli interpreti al bis e acclamando nel finale a gran voce tutti i protagonisti con ovazioni da stadio. La direzione artistica sceglie la versione apocrifa del 1893 che, seppure mantenendo inalterata l’essenza del finale, presenta, rispetto a quella più conosciuta, alcune significative variazioni: nel Choeur dansé manca la sezione centrale con l’intervento di Nadir; l’introduzione della successiva Scène et duo è notevolmente ampliata con l’intervento del coro a cui segue un terzetto tripartito dei protagonisti; nel finale Zurga esorta gli amici alla fuga al sopraggiungere di Nourabad.
Il nuovo allestimento proposto dal teatro salernitano a firma di Riccardo Canessa è un connubio ideale di eleganza e tradizione. Complici le raffinate scenografie di Flavio Arbetti (che sfruttano al meglio i ridotti spazi e le ridotte possibilità del palcoscenico del Verdi), il notturno disegno luci di Fabrizio Ganzerli e le proiezioni sul fondo (curate da Jean Bapiste Warluzel), l’angusto palcoscenico trova spazi profondi e dilatati, un orizzonte largo e un fresco respiro. Senza mai scadere nel  kitsch, volti, sfondi, veli, primi piani, vegetazioni si susseguono sullo sfondo con grazia, ben integrati con gli altri elementi della scena e in piena sintonia con il dettato musicale. Ne emerge un esotismo lontano dagli eccessi, altresì moderato, tenue e delicato come un colore pastello. La regia di Riccardo Canessa racconta con credibilità la vicenda scegliendo la via di  una gestualità convenzionale, ma non per questo banale e scontata. Certo, c’è poi quel coro-spettatore attento ma distaccato delle vicende dei protagonisti ad appesantire un poco i momenti d’insieme, imprigionato in una staticità fotografica da modesto tableau che cozza con la vivacità ritmica delle melodie bizetiane.
Daniel Oren ha avuto in questi anni da un lato il merito di far guadagnare alla platea salernitana un posto di primo piano su scala nazionale, dall’altro ha avuto modo di allargare il repertorio e di piegare la propria estetica dalle esigenze della concertazione en plein air a quelle delle piccole platee. Tuttavia la sua lettura dei Pêcheurs è in linea di massima da considerarsi al di sotto delle recenti prestazioni, specie nel primo atto: l’incipit è sottotono, gli archi calano e spesso piuttosto vistosamente, il concertatore è rigido e smarrito, impegnato nella ricerca dell’effetto fine a se stesso. La musica cambia (e di molto) fin dal partecipato accompagnamento del duetto fra Nadir e Zurga, e il riscatto dfinitivo arriva nel II atto: qui Oren prende il largo (estaticamente emozionante il duetto d’amore fra Nadir e Lèila) e dilaga con accenti e colori che lasciano sì intravedere un bel flirt con l’opera francese ma che però molto deve alla sua solidissima relazione con lo stile italiano.
Al coro del Teatro dell’Opera di Salerno diretto da Luigi Petrozziello non bastano gli effetti né i fascinosi cambi di dinamica richiesti da Oren per mascherare una prestazione opaca, specie se confrontata con le precedenti. Sebbene la preghiera «Brahma! Divin Brahma» consenta all’organico di distendersi in un canto spiegato che richiama alla mente gli “antichi fasti”, pare che il cimento con l’opera francese, che vuole stile differente rispetto al repertorio nostrano, sia stato preso sottogamba. Velleità che costa cara specialmente alle voci maschili: fin dall’iniziale «Sur la grève en feu», cantano con voce dura e spigolosa, affaticata e forzata con dubbi esiti sul piano dell’intonazione.
Celso Albelo è uno dei tenori più in voga dell’ultima generazione e ha le carte in regola per esserlo: antitutto un invidiabile appeal timbrico, un considerevole bagaglio tecnico, acuti affilati e squillanti. Tuttavia le migliori qualità il suo Nadir le mostra dalla seconda ottava in su, dove il cantante ha modo di risolvere i passi squisitamente vocalizzati con gusto e suggestivi colori (si veda «Ah Chante, Chante encore»). Altrove alcuni punti necessitano di una messa a fuoco maggiore: in prima istanza  il canto a fior di labbro e in mezza voce con cui sceglie di risolvere «Je crois entendre acore», un’oasi lirica di difficoltà mostruosa, oltre che un momento di di grande suggestione. Ancora sono poi da scavare il rapporto con la parola francese in quei punti dove la concitazione drammatica si fa vivace (quel «Venez, je vous brave, Oui, je brave les cieux» mancava di peso) e la presenza scenica.
Luca Grassi dona a Zurga, fin dall’iniziale «Amis, interrompez vos danses et vos jeux», una maschera invidiabile, un suono tornito e un canto tutto proiettato in avanti, ma il gravoso impegno profuso del duetto con Nadir (risolto con schiette risonanze e un canto elegante le cui ragioni musicali prevalgono sulla fisicità dell’interprete) lo fanno arrivare assai stanco sia al récit «Une famme inconnue», in cui l’intonazione  vacilla,  che alla Scéne et choeur con Léila dove la linea è spesso scomposta e sorda. Sfasamenti bilanciati però da altrettanti momenti il cui il cantante e l’interprete raggiungono singolarmente esiti ottimali e coralmente sincretici: è il caso sia della maledizione nel finale II che dell’air del terzo atto.
In merito Desirée Rancatore lessi da qualche parte poco prima della mia partenza per Salerno infastiditi post e commenti di melomani incalliti che lamentavano alla cantante un vibrato nei centri ulteriormente dilatato e fastidioso (sorte peraltro condivisa con numerosi altri soprani leggeri). Mi pare invero l’ennesimo tentativo di pochi per screditare (non forse senza un pizzico di invidia) gli innumerevoli pregi di una grande artista e di una vocalista di rango. Mi sia consentito quindi in prima istanza osservare, alla luce della sua prestazione salernitana, che il vibrato nei centri (è vero, qua e là riscontrabile) è davvero nulla se rapportato alle mirabolanti peripezie che regala la vocalità della soprano siciliana. Timbro e colori sono poi quelli ideali per la parte, per di più la cantante è maturata sul piano della duttilità dello strumento nella resa del chiasoscuro. L’innata vocazione al canto di agilità ha poi nella sua Léila modo di manifestarsi in maniera sfolgorante e soggiogante; ogni nota ha suono rotondo, cesellato, accorto, è accompagnata da un fraseggio sensibilmente sottomesso alle regole della cantabilità francese. Vertice assoluto della sua prestazione, la temibilissima «Il veille pres de moi» dove i suoni girano con disarmante facilità sicchè l’impervia e ampia cadenza finale diventa, nelle corde del soprano siciliano, un ludus, un divertito e sfrontato scintillio di picchiettati e puntature che genera un ovazione da stadio.
Lussuoso, ma non sempre così accorto, il Nuorabad di Alastair Miles, su cui pesa il docile giogo di una gestualità ingessata e scevra di credibilità. Adeguate le coreografie Pina Testa, meno gli inserti delle stesse. Del successo si è detto.
Foto Massimo Pica  © Teatro Verdi di Salerno