Puccini a Genova, la fine dell’eterna adolescenza in una Bohème che sembra un fumetto

Al Carlo Felice torna l’allestimento pop disegnato da Musante Grande prova di Anastasia Bartoli nei panni di Mimì

Mimì muore. Lo sappiamo dall’inizio. Da quel suo «Scusi», detto fuori scena, impregnato già di morte. Il fiato corto, il mancamento, la tosse… le ossa rotte… Mimì muore. Non ha scampo. Nessuna «stagion dei fiori» la potrà guarire. Non si salverà nemmeno se «eterno durasse il verno». Mimì muore. Inevitabilmente. Ma quando il manicotto le sfugge dalle mani perché «Marcello, è spirata», non muore solo una ragazza, una ragazza che vive di espedienti – intreccia finti fiori, si fa il pranzo da sola, non va sempre a messa… ma poi si concede in allegria al Viscontino… in realtà anche a Rodolfo perché dopo due minuti due gli dice Ti amo! Non muore solo una ragazza malaticcia. Muore Mimì e muore la gioventù. Muore l’innocenza. Muore l’idea – forse un po’ hippie, un po’ figlia dei fiori – di una vita spensierata, senza preoccupazioni… da vivere alla giornata. Muore la poesia – possibile necrologio scritto dal poeta Rodolfo per ricordare la sua «soave fanciulla».

Così quei bambini che alla fine di tutto (la morte ha detto la sua) passano su un carretto – un po’ condannati alla ghigliottina dell’Andrea Chenier, in realtà, strano effetto straniante – bambini che sono il doppio di Mimì, Rodolfo, Marcello, Musetta, Schunard e Colline… vestiti come loro, le stesse movenze, gli stessi tic… Così quei bambini che alla fine di tutto passano su un carretto e salutano i loro “altri”, disperati (e imprigionati in una soffitta colorata, coloratissima che ormai non li “racconta” più), disperati per la morte di Mimì (disperati perché non hanno una prospettiva, perché la morte, quando si è ragazzi sembra la cosa più ingiusta e invalicabile di questo mondo… poi si cresce)… così quei bambini che passano e vanno (e salutano) dicono che l’adolescenza (perenne adolescenza, lo sappiamo, oggi più che mai) è finita. Irrimediabilmente. Finita l’adolescenza, finita l’«età di inganni ed utopie» quando «si crede, spera e tutto bello appare» – appare tutto bello, colorato, chiassoso, un chiasso che copre il rumore del dolore… lo fa per un po’, ma poi il dolore urla… «Mimì! Mimì!» urla Rodolfo mentre Marcello e Musetta soffocano in gola il loro grido. Mentre quei bambini, i loro “altri” passano, salutano e vanno…

La soffitta, che ormai nei suoi colori insistenti non racconta più quei ragazzini diventati improvvisamente adulti, ti appare improvvisamente grigia. Eppure sul palco del Teatro Carlo Felice di Genova è ancora colorata, coloratissima. Come l’abbiamo vista quando si è alzato il sipario (colorato, coloratissimo, pop e chiassoso) su una Bohème “storica”. Storica perché in repertorio ormai dal 2011, regia tutta sul libretto, puntualissima e rispettosa delle didascalie e della musica di Giacomo Puccini di Augusto Fornari. Storica – e quasi a km zero – perché disegnata con il suo stile inconfondibile (surreale, onirico, poetico, pop…) dal genovese Francesco Musante. Colorata. Coloratissima. Al punto da stordirti di colore e frastuono – sin dal sipario che riassume situazioni e luoghi dell’opera in una sorta di Guernica pop. Vitale, macchiata dei colori della vita. Salutata, immancabilmente ad ogni recita, dall’applauso a scena aperta nel passaggio dal primo al secondo quadro, dalla soffitta al quartiere latino. Stile carillon. Perché mentre nell’aria c’è ancora l’eco dell’ «Amore… amore…» di Mimì e Rodolfo entrano i bambini, i “doppi” dei personaggi, altri e insieme loro stessi o la loro anima…), ruotano la chiave, caricano il meccanismo e il carillon parte. Suona. Gira. Personaggi immobili, nella stessa posa che chiuderà il quadro (Alcindoro con il lungo conto in mano, i parigini a deriderlo, il tambur maggiore appena passato…) pronti a ripartire… come in un carillon, appunto.

Colorata La bohème del Carlo Felice e di Musante, d’altra parte nella partitura ci sono il Mar Rosso e i Cieli bigi, c’è l’Azzurro guizzo languente e c’è quella (maledettissima, perché ogni volta sono lacrime) Cuffietta rosa. Colori. Gli stessi di Genova. Del cielo e del mare. Gli tessi che si rincorrono tra i vicoli della città. Che ti fa venire in mente Napoli, ma anche Barcellona. Certo perché è città di mare… per il profumo di salsedine che si mischia a quello del fritto di mare… per i panni stesi tra una finestra e l’altra dei caruggi… Ma perché la senti addosso, autentica. Vento e sole. Ma anche squarci grigi. Macchiati di colore. Spirito assolutamente “genovese” per La bohème del Carlo Felice e di Musante. Diretta, sicuramente. Colorata. Quando, forse, dovrebbe essere grigia e nera. O quantomeno sfumare pian piano in quei colori. I colori della morte che incombe, inesorabile. E alla fine arriva. Colorata. Coloratissima Bohème. Fuori sincro, pensi quasi, rispetto alla storia, rispetto al racconto, ai sentimenti che sanno di malinconia, di quella che ti si attorciglia allo stomaco e non ti molla. Fuori sincro rispetto alla musica – maledetto Puccini, capace di farti piangere anche nei momenti più spensierati dell’opera. Musica che è vitale, è vero. Bastano gli attacchi di ciascuno dei quattro quadri per sentirla la vita. Sentirla addosso, sentirla palpitante. Anche se dentro quella musica ha da subito l’incedere lento, ma inesorabile della morte. «Scusi» esordisce, fuori scena, Mimì. Il respir… quelle scale… le ossa rotte… la cuffietta rosa… il «Sono andati, fingevo di dormire…». Racconto in musica di una vita che fugge. Che scivola tra le dita.

Fornari – cogliendo un aspetto che altri hanno messo in scena, prima e dopo questa Bohème – legge le vicende dei giovani artisti squattrinati come un romanzo di formazione, il passaggio (doloroso, tremendamente doloroso perché implica il fare i conti con la morte) alla vita adulta. Il “doppio” dei personaggi, i bambini (che in scena assicurano sempre applausi e tenerezza) che guardano, partecipano, si distanziano dai personaggi per poi salutarli e lasciarli alla loro vita “temprata” dal dolore… Una Bohème che ha l’impianto tradizionale di tante Bohème – i luoghi, le situazioni, i gesti, persino la collocazione spaziale dei personaggi. Debitrice, sicuramente, come tutte le Bohème venute dopo il 1961 nei confronti del supercalassico scaligero di Franco Zeffirelli. Fornari racconta puntualmente, la storia che Illica e Giacosa hanno preso da Henri Murger torna tutta. Certo, raccontata con i colori pop di Musante, assomiglia più a un fumetto – i costumi (e forse anche le scene) andrebbero benissimo per un Elisir d’amore – che a uno squarcio “verista” o “impressionista”. Fuori sincro, appunto, rispetto alla musica.

Anche lei, spesso, fuori sincro. Fuori sincro (che non vuol dire per forza scollamenti eclatanti, ma divergenza di intenzioni, di tracciato da seguire insieme per arrivare alla meta…) tra palcoscenico e buca. Dove, sul podio dell’orchestra (e del coro e delle voci bianche del Carlo Felice) c’è Francesco Ivan Ciampa. Che ha passo teatrale nei momenti corali, ma sceglie tempi lenti (troppo), a volte lentissimi per le arie. Lettura che spiazza quella del direttore (che qualche settimana prima aveva restituito al Regio di Torino una bella Fanciulla del West, sempre Puccini…). Incertezza negli attacchi… chi parte sul «Ma quando vien lo sgelo…» o sul «Bada…»? Lentezze eccessive che dilatano la musica – e l’effetto, paradossalmente, non è di un maggior respiro, ma di un affanno, una rincorsa che spezza ritmo e tensione… In scena (due i cast che si sono alternati nelle repliche) chi ha più esperienza (o tecnica, o nervi saldi…) ne viene a capo. Altri rischiano di inciampare.

Due Mimì. Una strepitosa, Anastasia Bartoli. Intelligenza musicale, temperamento… acuti sicuri, voce piena che in alto non si svuota, anzi, si riempie di suono, di melodia. Presenza che si impone nei momenti corali – non perdi una parola nell’atto affollato di Momus. Voce di “una volta” (ci senti le grandi Mimì, quelle davvero grandi… diciamo la Callas e la Freni?), interpretazione moderna fatta di piglio, di intensità, di capacità di scavare dentro la musica. Un’altra Mimì, Serena Gamberoni – anche lei a km zero, diremmo, cittadina di Genova e guida, insieme al marito Francesco Meli, dell’Accademia del Carlo Felice – che offre una lezione di canto in scena, applauditissima dagli allievi che riempiono la sala e la seguono, attentissimi, come in aula. Due Rodolfo. Galeano Salas, voce luminosa, squillante (alla Pavarotti) che affronta con slancio e belle intenzioni la parte e supera con abilità i nodi cruciali di una parte che, invece, sembra stare un po’ stretta ad Alessandro Scotto di Luzio. Due Musetta, la musicalissima Benedetta Torre e la pungente Maria Novella Malfatti. Musicalmente e scenicamente efficaci (ognuno con il suo stile) Alessio Arduini e Leon Kim, nei panni di Marcello, Gabriele Sagona e Luca Dall’Amico in quelli di Colline. Lasciano il segno come Schunard, uno con un’interpretazione misuratissima e l’altro con una voce che avvolge, Pablo Ruiz e Fernando Cisneros. Ben cantato e per nulla caricaturale (evviva) il Benoit di Claudio Ottino.

Macchie colorate. Pop. Che si muovono su una scena che sa di fumetto. Contorni stondati, linee morbide, ratto netto… colori. Che ti immagini sfumino in un grigio malinconico mentre i bambini, alla fine di tutto, quando la morte ha detto la sua, sfilano su un carretto. Guardano i personaggi. Salutano. E vanno. Perché è finita l’«età di inganni ed utopie» quando «si crede, spera e tutto bello appare».

Nelle foto @Marcello Orselli La bohème al Teatro Carlo Felice di Genova