di Luca Chierici
Alla quarta ripresa del dittico Cavalleria-Pagliacci alla Scala (la prima era stata nel gennaio 2011, seguita dalle repliche del 2014 e 2015) il pubblico non si è più scomposto nei confronti degli aspetti più inquietanti dell’impianto di Mario Martone (regìa ripresa da Federica Stefani) e dalle scene di Sergio Tramonti, che tanto avevano scandalizzato i benpensanti e che continuano in parte a sovvertire i parametri tradizionalmente considerati negli allestimenti classici delle due opere.
Le scene spoglie e geometriche, i movimenti ridotti nella parte introduttiva del lavoro di Mascagni non hanno per nulla nuociuto alla direzione esuberante (a volte fin troppo) di Giampaolo Bisanti che ha dato il meglio di sé in Pagliacci. Sicuramente più indovinata è l’attualizzazione del contesto nel caso dell’opera di Leoncavallo, intervento registico e scenografico che avrebbe dovuto forse suggerire la ricerca di nuovi effetti nella lettura del testo. È certo che la presenza di Daniel Harding abbia rappresentato nel 2011 una scelta più in linea con la modernità della regia e delle scene, ma non è detto che per forza di cose quella scelta fosse stata propizia a una resa più illuminante rispetto a quelle tradizionali. Se dal punto di vista drammaturgico Cavalleria e Pagliacci si possono prestare alla proiezione di sentimenti e azioni vecchi come il mondo in contesti attualizzati, ciò non significa che due partiture (soprattutto la seconda) estremamente legate al loro tempo debbano per forza essere oggetto di una tentata trasformazione che nella maggior parte dei casi toglie qualcosa piuttosto che aggiungere. Di verismo si tratta ed è inutile cercare di indicare nelle due partiture raffinatezze alla Pelléas o al Wozzeck.
Fortunatamente, e lo diciamo senza paura di essere travisati, sia la concertazione esuberante di Bisanti, sia soprattutto il felice protagonismo di interpreti vocali di tutto rispetto, hanno indirizzato lo spettacolo bifronte su binari se vogliamo più prevedibili ma anche più appetibili per il pubblico formato in parte da stranieri capitati a Milano per il Milano design week.
In Cavalleria ha brillato la Santuzza di Elīna Garanča, che non solo vocalmente ha tratteggiato un personaggio di forte spessore, guidata dal forte dolore per un rapporto reso impossibile dal contrasto di carattere con Turiddu. Proprio l’amato compagno (Brian Jagde) e l’Alfio di Amartuvshin Enkhbat erano altrettanto notevoli nei loro ruoli. Meno appariscente è stata la Lola di Francesca Di Sauro ma provetta interprete si è rivelata come ci si poteva attendere Elena Zilio nei panni di Lucia.
Nei Pagliacci ancora Enkhbat è stato un Prologo (poi Tonio) perfetto sotto ogni punto di vista. Canio feroce e imponente era Fabio Sartori e sempre convincente la Nedda di Irina Lungu. Applausi particolari ha meritato il bravo e aitante Silvio di Mattia Olivieri. In entrambe le opere ruolo primario e felicemente salutato dal pubblico ha avuto il coro guidato da Alberto Malazzi. Bravissimi e giustamente applauditi i mimi che hanno magnificamente illustrato il contesto circense nel quale è calata la regia di Martone.