Puccini alla Scala, la “nuova” Rondine di Chailly prigioniera del Truman show di Irina Brook

Al Piermarini prima assoluta della versione sull’autografo Protagonista Mariangela Sicilia con Matteo Lippi e Rosalia Cid Delude (e irrita) la versione musical della regista francese

Ti aspetti, mentre la musica si spegne nel silenzio – così vuole Giacomo Puccini, intuizione drammaturgica in un’opera che di drammaturgia ne ha ben poca –, ti aspetti che Magda, che si è incamminata verso il fondo della scena sulla passerella di legno, pontile che si fa strada tra onde di cartapesta in perenne movimento, si volti verso il pubblico, verso di noi e dica la frase iconica «… e casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!». Stampandosi poi in faccia il tipico sorriso alla Jim Carrey. Ti aspetti quella frase perché dove c’era un mare dipinto, un orizzonte finto, dichiaratamente finto, si apre una porta. Exit la scritta che la sovrasta. Fatta di luci rosse. Uscita di sicurezza da un mondo di finzione. Come nel finale, bellissimo, di The Truman show, il film (bellissimo) del 1998 di Peter Weir che ha consacrato come attore drammatico (bravissimo, intenso, inaspettato…) Jim Carrey. Ma questo non è The Truman show. Anche se il finale è identico. Stesso orizzonte finto, stessa uscita di sicurezza che si apre nella scenografia, uscita dalla quale il (la) protagonista esce – qui, però, senza dire la frase iconica di Jim Carrey, «… e casomai non vi rivedessi…».

Questo non è The Truman show. Questa è La rondine di Giacomo Puccini andata in scena al Teatro alla Scala, titolo di punta delle celebrazioni scaligere per il centenario della morte del compositore toscano – ci sarà poi a giugno una Turandot e un Gala il 29 novembre con Anna Netrebko e Jonas Kaufmann. Secondo e ultimo titolo operistico, questa Rondine, affrontato in stagione (dopo l’inaugurale Don Carlo) dal direttore musicale Riccardo Chailly – lo si rivedrà in buca per la Forza del destino che il 7 dicembre aprirà la prossima stagione… salvo prendere il posto di Daniel Harding che, causa paternità imminente, potrebbe dover rinunciare a dirigere Turandot (titolo che Chailly ha già diretto magnificamente alla Scala, in avvio della Stagione Expo, a maggio del 2015). Non è The Truman show, è La rondine di Puccini nella rilettura sconclusionata e a tratti irritante di Irina Brook, per il “già visto”, cero, ma soprattutto per la superficialità della lettura che offre di un testo all’apparenza frivolo, salottiero, ma innervato di profonda umanità, tutta da far venire a galla.

Irina, figlia di Peter, terza “figlia d’arte” – dopo Daniele Abbado, figlio di Claudio, per il verdiano Simon Boccanegra e dopo Chiara Muti, figlia di Riccardo, per Guillaume Tell di Rossini – nell’attuale stagione scaligera disegnata dal sovrintendente Dominique Meyer. Terza “figlia d’arte” e terzo flop, ahimè. Dopo gli applausi di cortesia della buona borghesia milanese ad Abbado per un Boccanegra insapore e incolore, dopo le bordate di fischi (che si ripetono a ogni replica) per il Tell dal segno forte (e cupo e inquietante) della Muti, buu sparsi (ma ben udibili tra gli squillanti apprezzamenti per Chailly e i cantanti) per La rondine di Irina Brook. Che paradossalmente trova in questo finale alla Truman show – finale che visto in questo contesto, al termine di questa lettura registica, però, sfiora quasi il comico – trova in questo finale davvero metateatrale (non lo è per nulla il primo atto che ci obbliga per l’ennesima volta a una stucchevole e polverosa pantomima, tra l’altro non sempre riuscita, di teatro nel teatro) trova quella che avrebbe potuto essere la chiave di lettura spiazzante, inaspettata, disorientante, sul testo letterario (librettista è Giuseppe Adami) e musicale dell’opera di Puccini. Commedia nel suo scorrere veloce e leggero (e poi, una volta tanto, non muore nessuno…), ma come ogni commedia (Truman show compreso) piena di vita.

Opera, questa Rondine, che il compositore confezionò nel 1917 per Monte Carlo, immaginata come un’operetta (inconfondibile il marchio di fabbrica dell’incipit che potrebbe essere di un qualsiasi Paese dei campanelli o di una qualsiasi Cin ci là di qualsiasi Lombardo-Ranzato), ma trasformata poi in una delle sue partiture più raffinate – il Sogno di Doretta in un continuo dialogo tra pianoforte, qui suonato in scena da James Vaughan, sorprende sempre, incanta, affascina come affascina il prosciugarsi progressivo della scrittura nel terzo atto. Una delle partiture pucciniane più raffinate e più profumate di malinconia. Quella malinconia che ti resta addosso sin dal Sogno di Doretta. Che ha una strofa in più affidata a Prunier, perché sul leggio di Chailly c’è la “prima” Rondine, partitura praticamente mai ascoltata, con battute in più… ma questa è un’altra storia (o forse la stessa visto che la via della riscoperta delle prime versioni pucciniane è diventata una costante delle letture scaligere di Chailly). Ti resta addosso dall’iconico «Chi mi riconoscerebbe?» (anche questa, frase che è scolpita nella memoria di molti… tanto che è il commento più gettonato per i post social sulla Rondine scaligera), dichiarazione (parlata) che chiude il primo atto. E che non ti scrolli di dosso nemmeno alla fine, quando Magda “esce” – Exit – dalla vita di Ruggero e da una società dove conta solo l’apparenza, dove è importante non dare scandalo e dove una donna, redenta dall’amore, non ha spazio, perché porterà addosso sempre lo stigma del suo passato… Aiuto, sembra Traviata – e anche un po’ Carmen con la madre di lui che ci mette lo zampino con una lettera dove dice al figlio che spera che la donna che lui ama sia «buona e mite, pura» e ammonisce che «è la maternità che rende santo l’amore…».

Suggestioni che a ben vedere sarebbero valide ancora oggi (aggiornate ai tempi, ma drammaticamente ancora attuali), da raccontare con il tono leggero della commedia – non muore nessuno fisicamente, ma quella di Magda, una morte dentro, una morte dell’anima, è una morte forse ancora più atroce, perché ti prende mentre sei vivo e ti lascia vivo nonostante tutto. Suggestioni che, però, restano lì, sospese, nello spettacolo di Irina Brook. A volte accennate, a volte soffocate dalla sovrastruttura che la regista mette al racconto musicale… che scorre (estetica scelta dalla regista) a ritmo di musical – scene incorniciate di lampadine, visioni dichiaratamente finte (il mare di cartapesta) e costumi esagerati, caricaturali, colorati e kitsch (le donne-fiore e gli uomini in completi dai colori pop che sfilano e ballano nell’atto di Bullier), scene e costumi di Patrick Kinmonth, luci a spot di Marco Filibeck, coreografia alla Broadway di Paul Pui Wo Lee. Sovrastruttura, quella messa come una zavorra sulla Rondine dalla Brook, che ti travolge e stordisce da subito. Entri in sala e il sipario è già alzato, sei già dentro il gioco di teatro nel teatro (ancora! ti viene da sospirare…) perché sul palco è un andirivieni di tecnici e artisti (che fanno riscaldamento e si fanno il classico Toi toi toi prima di andare in scena).

Inizia la musica. Una regista dà inizio alla prova. Alter ego di Irina Brook, è subito chiaro perché lo spettacolo sembra cucito introno a questo personaggio di fantasia, non presente nel libretto. Sguardo dentro la storia, che, però, non stabilisce un’empatia con noi in sala. Nella finzione si chiama Anna, ma questo lo scopri solo leggendo le note di regia perché in locandina (lunghissima perché i ruoli sono molti, tanti affidati a puntualissimi solisti del coro e diligentissimi allievi dell’Accademia) non compare Anna… Stesso nome dell’artista che la interpreta, Anna Olkhovaya, nominata tra i mimi scaligeri (carriera iniziata al Bolsh’oi, oggi docente di Danze storiche alla Scuola di ballo, conduttrice di un podcast sulla danza e nelle occasioni ufficiali, Prima del 7 dicembre compresa, a fianco del sovrintendente Meyer), figura che incarna, appunto, la regista e che diventa poi alter ego di Magda, immagine della sua anima pura (in pigiama di seta)… come vorrebbe la mamma di lui. Anna sempre presente, troppo presente sulla scena – durante lo spettacolo capita anche che si sovrapponga e oscuri Magda, agli applausi finali introduce (ancora pantomima…! nonostante la finzione sia finita e gli applausi siano reali) gli artisti chiamati al proscenio. Chiassosa presenza pur silenziosa – e questo la dice lunga su quanto certe regie, certe immagini possano coprire di “rumore” la musica.

Bella, intrisa del Puccini che è stato e di quello che verrà – ci senti Bohème che è stata e il Trittico che sarà – la musica de La rondine, veloce come un batter d’ali (alla Scala però si ascolta frammentata, con due intervalli). Delle tre versioni della Rondine in circolazione Chailly sceglie la quarta. Ovvero la prima Rondine, edizione critica per Ricordi di Ditlev Rindom sull’autografo della partitura, creduto perduto, distrutto dai bombardamenti alleati su Milano del 1943, ma poi trovato negli archivi della nipote del compositore, Simonetta. Molte, anche se non così evidenti, le differenze con le Rondini conosciute: linee vocali, dinamiche, fraseggio, articolazioni… parti poi eliminate (come la seconda strofa di Prunier del Sogno di Doretta) sono risuonate alla Scala nella nova tappa dell’operazione voluta da Chailly per riscoprire le prime versioni delle opere del compositore toscano – operazione, questa volta, meno pubblicizzata rispetto alle tappe precedenti… la Fanciulla prima dei tagli di Toscanini, la Tosca inaugurale del 2019 con un finale lungo il doppio, la Manon Lescaut… forse anche perché le differenze sono meno evidenti e forse perché Rondine non è un’opera così eseguita e dunque così radicata nell’immaginario, come i titoli pucciniani più pop.

Chi la conosce (e la ama) la conosce (e la ama) a fondo. Quasi alla follia. Raffinata. Iconica. Tutta sul sentimento. Chailly, invece, sceglie una lettura antiretorica, antisentimentale. Asciutta. Millimetrica sulla partitura. Tutta costruita sul pentagramma, su forme e strutture. Controllatissima, perché non c’è particolare che sfugga al direttore, che tiene in pugno buca (dove c’è un’orchestra quasi wagneriana, da Meistersinger o Götterdämmerung… sette i contrabbassi) e palcoscenico. Spatolate di suono, folate che ti spettinano, come nel «Bevo al tuo fresco sorriso» che sfocia nel grande concertato del secondo atto. Tutti in proscenio (solisti e coro di Alberto Malazzi) e applauso d’ordinanza che, immancabile, saluta le pagine più note dell’opera… il «Sogno di Doretta» – reso ancora più immortale da James Ivory nel suo Camera con vista (ecco che torna il cinema), colonna sonora del bacio che George ruba a Lucy nel «campo di grano venato dalla macchie cremisi dei papaveri…» come scrive Edward Morgan Forster –, le «Ore dolci e divine» di Magda, il «Dimmi che vuoi seguirmi alla mia casa» di Ruggero. Momenti iconici. Che risuonano. Attesi. Strappacuore, perché Puccini (maledetto!) è un maestro in questo… come restare indifferenti di fronte a parole (rivestite di questa musica, poi) come «che importa la ricchezza se alfine è rifiorita la felicità», «se potessi sperare che questo istante non muore, che il mio rifugio saran le tue braccia, il tuo amore, sarei troppo felice né più altro vorrei dalla vita…» sino al colpo fatale del «non dir niente… che sia mio questo dolore…».

Risuonano – meno sentimento e più testa nella lettura di Chailly, che, comunque, non dimentica il cuore – grazie a una straordinaria Mariangela Sicilia (debutto scaligero per il soprano, festeggiatissima) che li restituisce alla perfezione, senza deludere le attese di chi conosce e ama La rondine. Una Magda, la sua, con una voce venata di malinconia, sicurissima in acuto – suoni bellissimi, fiati interminabili, emozionanti…  – avvolgente, screziata, voce di chi ha dovuto fare i conti con la vita. Perché Magda non è un personaggio frivolo, dice la Sicilia con la sua interpretazione che segna, sicuramente, un riferimento per le Magda che verranno. Così come Rosalia Cid, prossima ad entrare nell’ensemble della Semperoper di Dresda, qui Lisette che lascia il segno vocalmente e scenicamente. Graffia il soprano di Santiago de Compostela (formazione fiorentina, prima al Conservatorio e poi all’Accademia del Maggio), graffia con un’interpretazione intensa, musicalmente impeccabile, con una voce che svetta e affascina.

Voce bella, piena, anche quella di Matteo Lippi. Ruggero. Ruolo impervio. Che inizia quasi in sordina ed esplode nel terzo atto, drammatico, teso, infine ripiegato. Così il tenore genovese, scanzonato nel primo atto, seduttivo nel secondo, drammatico (ma a volte la voce sembra quasi arrivare un po’ affaticata) nello struggente addio. Parabola inversa per Giovanni Sala che è Prunier (ruolo che per il tenore comasco inizia ad essere in un terreno minato… minato per la sua voce mozartiana e donizettiana…). Un Prunier che parte in sordina (centri spesso non pervenuti nel primo atto), ma poi cresce e disegna un personaggio a tutto tondo – lo fa musicalmente perché scenicamente la Brook gli impone mossette e ammiccamenti (poco maschili… diciamo così) che distruggono il personaggio del poeta. Nobile il Rambaldo di Pietro Spagnoli.

Nobile. Come la musica di Puccini. Raffinata. Bella e profumata di malinconia. Come un sogno. Che, certo, muore all’alba. Ma che non lascia addosso il terrore di un incubo dal quale uscire. Exit.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala La rondine