Preparatore voci bianche Alhambra Superchi
Bologna, 12 aprile 2024
“La caldaia è scomparsa”, quella delle streghe: ma c’è quella in eterna ebollizione di Oren, magica del pari. Inconfondibile il suo apporto alla qualità del suono: corposo, avvolgente, luccicante. E l’ineguagliato fraseggio: il legato regna, soffice e dolce, su cantabili sdilinquimenti e infiammati fervori di cabalette. Con la sua sincera, inestinguibile passione. Il momento più alto della serata è Patria oppressa: merito anche del Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, che conserva sempre vigore e compattezza, eleganza e morbidezza. Del resto il Macbeth è straordinario davvero, fatto com’è di convivenze fiorentine del ‘47 e parigine (seppur volte in italiano) del ‘65. Sarebbe un affascinante gioco intellettuale metterne in luce le differenze: Oren invece avvolge tutto in levigate tinte fosche, infondendo un sorprendente senso di organicità all’opera. La luce langue, per esempio, non sembra più una strana cometa novecentesca, apparsa per caso nella tempestosa volta del giovane Verdi. Il cast, di prim’ordine, è stato molto festeggiato dal pubblico. Ekaterina Semenchuk ha un bel volume da un capo all’altro della tessitura, con esiti piuttosto impressionanti nel registro grave: ricorrendo all’uso, e non all’abuso, della cosiddetta risonanza di petto. La dizione è cartavetrata di cattiveria, e nel timbro si scorge talvolta un velo d’acidità che giova al personaggio: perché soprattutto qui c’è l’interprete. Di grande efficacia la spedizione, condottiero Oren, agli estremi confini del pianissimo, del senza suono. In tale audace impresa il protagonista resta un passo indietro. Roman Burdenko ha voce di grande morbidezza, ben timbrata, e solida: insomma canta assai bene. Ma forse in un ruolo così il canto è, come dire?, quasi secondario. È l’accento, l’inflessione, l’attitudine, l’intenzione della parola a fare il personaggio, più ancora della linea di canto. Riccardo Fassi è un cantante di riguardo: basso autentico, senza esitazioni baritonali, dalla voce già completa ma destinata ad un ulteriore sviluppo, con impeccabile proiezione del suono e splendida dizione, quel che si dice “canto sul fiato”. Quella di Antonio Poli è un’altra natura vocale di valore, con quella tenorile baldanza e quel piglio scattante che si conviene a questo repertorio. Con lui duetta vivacemente Marco Miglietta nella trascinante cabaletta che smuove il pubblico e la foresta di Birnamo. Nella scena del sonnambulismo i brevi ma decisivi interventi del medico e della Dama della Lady sono stati sostenuti con ottima dizione e proprietà espressiva da Kwangsik Park e Anna Cimmarrusti. La regia di Jacopo Gassman, al suo debutto all’opera, è intellettualmente assai raffinata. Ha il pregio ed insieme il limite di servirsi della grammatica teatrale che domina con maestria: quella del cosiddetto teatro di regia. I cappotti doppiopetto, gli anfibi, i mantelli, i colori simbolici, qualche sedia, le coroncine ritagliate nella carta: tutti elementi chiaramente leggibili ma che forse non esaudiscono appieno tutte le necessità del teatro musicale, quello che della forma fa il principale contenuto, e dove se non importa più di tanto cosa si dicano è perché importa come se lo dicono. Lo spettacolo, scene di Gregorio Zurla e costumi di Gianluca Sbicca, è molto sobrio, di un’eleganza fin scarna nella sua pulizia. Ma si imperna su un’intuizione a dir poco geniale: i sipari. Così si sfrutta l’esasperata orizzontalità del Nouveau con uno strumento semplice ma di grande efficacia teatrale. Velare e disvelare: un gioco vecchio come il teatro, ma proprio perché squisitamente teatrale funziona più e meglio di mille led-wall.