Dramma buffo in tre atti
Libretto di Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti
Musica di Gaetano Donizetti

Don Pasquale Marco Filippo Romano
Dottor Malatesta Markus Werba
Ernesto Yijie Shi
Norina Sara Blanch
Un notaro Oronzo D’Urso

Tre voci soliste Valeriia Matrosova, Massimiliano Esposito, Carlo Cigni

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Jonathan Miller
Ripresa da Stefania Grazioli
Scene e costumi Isabella Bywater
Luci Jvan Morandi
realizzate da Emanuele Agliati

Allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino

24 marzo 2024

Don Pasquale, per sua stessa definizione, è un dramma buffo: si comprende fin da subito che non ci si trova davanti ad un’opera allegra composta ad arte solo per intrattenere, né ad una vicenda briosa imbastita per commuover poco e far ridere molto. Il rapporto tra i due termini, quasi ossimorici, di “dramma” e “buffo”, non si esaurisce in uno stile solo e soltanto spiccatamente farsesco, che pure l’opera talvolta possiede, ma soprattutto nell’umorismo, in quel sentimento del contrario che innesca una riflessione, ora malinconica, ora tragicomica, sulla fragilità umana e le sue ironiche debolezze. Daniele Gatti, tra i pochi davvero consapevoli di tutto ciò nella presente edizione, rimuove qualsivoglia tipo di incrostazione macchiettistica o fracassona, da operina clownesca tutta frizzi e lazzi, e rende Don Pasquale vera “operona”, così infinitamente complessa e cangiante nelle sue sfumature che pare udirla per la prima volta. La sinfonia, lungi dall’essere mera enumerazione di temi, acquista lo statuto di Sinfonia con la “s” maiuscola, dove ogni motivo assurge a movimento, inserito in un variare di tempi e volumi, di rubati e crescendi, praticamente inedito. Se è vero che non mancano la brillantezza e la sagacia pungente, specialmente nei momenti più scopertamente ironici, è altrettanto vero che il senso di dramma, perfino di tragedia imminente, emerge laddove si crede inatteso, stemperando il fuoco comico con una doccia fredda: la frase di Malatesta, che sommessamente dice a Don Pasquale “Preparatevi, e ve la porto qua.”, raggela per il tono drammatico con cui è cantata ed accompagnata, sostenuta da un tessuto orchestrale quasi verdiano. E non è un caso se Falstaff (diretto da Gatti lo scorso Maggio) e Don Pasquale, già legati da un fil rouge, trovino nelle interpretazioni del direttore quasi un completamento vicendevole, assecondato da un’Orchestra del Maggio sempre pregevolissima.

Gran peccato, quindi, che la regia sia andata da tutt’altra parte. Chiariamo subito: non si può imputare a Gatti alcuna colpa se la sua direzione d’autore, che valeva da sola il prezzo del biglietto, abbia cozzato con un’impostazione del dramma troppo sempliciotta. Perché la scena, enorme casa di bambole su tre piani che si apre sul pubblico, visivamente è bella, davvero bella, ma quello che ci sta dentro sa di già visto, di frusto, di circense. Eppure non è nemmeno questo il problema maggiore: la scenografia, ahimè, si abbatte sui cantanti, risucchiati da una struttura che ruba i suoni e gli armonici, spolpando quasi le voci e aggravando la non eccelsa acustica del teatro.

Marco Filippo Romano, vero basso buffo di gran scuola, già apprezzato altrove, riesce a farsi valere grazie all’emissione perfetta, all’attenzione maniacale per la sillabazione, la dizione ed il fraseggio – sempre curati anche nei passaggi più frenetici -, distinguendosi per un’interpretazione sfumata, impegnata anche a sottolineare il lato malinconico di Don Pasquale, quasi in lotta contro un’impostazione scenica che lo vorrebbe maggiormente bidimensionale.

Markus Werba canta assai bene, con intelligenza e raffinatezza, dosando accuratamente il suo istrionismo espressivo, sebbene sia tra quelli che soffre di più la scenografia (il confronto tra la sua prova come Leporello, sempre in questa sala, ed il suo Malatesta, rafforza il giudizio negativo sulla casa “divora-suoni”).

Yijie Shi, Ernesto, è colui che viene maggiormente a capo di tutto l’ambaradan scenico, sfoggiando una voce chiara ma sonora, ben timbrata e di pregevole colore, omogenea e arricchita da un fraseggio cesellato, risultando alla fine praticamente perfetto per la sua parte dolce e giovanile.

Sara Blanch appare sottotono rispetto ad altre sue migliori prove. Purtroppo il fare di lei una Norina-bambolina di risatine e occhiatine non giova al personaggio, compresso in una piattezza fin troppo caricaturale: il soprano possiede la bella linea di canto che sappiamo, timbricamente gradevole e ben sfogata in acuto, e canta sempre con personalità, eppure qualcosa si perde tra le note, senza convincere del tutto.

Molto bene il notaro di Oronzo d’Urso e le tre voci soliste di Valeriia Matrosova, Massimiliano Esposito e Carlo Cigni. Eccellente la prova del Coro del Maggio, che nell’atto terzo si prende un meritato applauso a scena aperta.

Gran peccato, ripeto, per “La casa” (il riferimento alla serie di film horror con Bruce Campbell è voluto).

Mattia Marino Merlo