Roma: la Zauberflöte fa scuola

Torna al Teatro dell’Opera di Roma Die Zauberflöte di Mozart, sei anni dopo l’allestimento di Barrie Kosky diretto da Henrik Nánási. E torna sotto la direzione del maestro Michele Spotti nell’allestimento ideato nel 2015 da Damiano Michieletto per il Teatro la Fenice di Venezia, in   coproduzione col Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Rimontato in piena libertà da Andrea Bernard, con le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti, le luci di Alessandro Carletti e i video della Rocafilm di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, lo spettacolo della ripresa romana, di cui abbiamo visto la prima   sabato 13 gennaio 2024, segue l’impianto originario voluto da Michieletto, del romanzo di formazione all’insegna della scuola dei sentimenti.

E infatti la regia punta sulla contrapposizione tra le forze dell’oscurantismo religioso, rappresentato dalla Regina della Notte, e la forza razionale della conoscenza ispirata al Secolo dei lumi e rappresentata da Sarastro. Per inscenare un simile contrasto che schematizza la complessità del percorso iniziatico massonico dell’opera di Mozart, la scelta è quella di una scuola anni Cinquanta, coi suoi muri verdini sbrecciati, le finestre alte fino al soffitto, banchi di legno e quei miseri arredi dozzinali, col mobiletto dei professori  con in cima un mappamondo.

Miracolo della tecnica, a segnare il passo con l’ultra contemporaneo è un video prodigioso che durante l’ouverture dà vita sulla lavagna in ardesia, unico sfondo mobile, alle formule delle equazioni matematica e ai disegni di certi particolari anatomici, come l’apparato respiratorio, le ossa dello sterno e delle clavicole, trascritti da un gessetto bianco che danza da solo.

Il primo a entrare in scena è Papageno, che non è il giovane uccellatore ridanciano con le piume in testa e la gabbia di volatili in mano, bensì un bidello occhialuto in camice azzurro, dall’andatura lievemente artritica. Nel trasloco di Michieletto, Tamino, il principe della favola di Schikaneder, diventa uno scolaretto attempato i calzoncini corti, svogliato, refrattario alla disciplina, che sfugge alle insidie del serpente velenoso, sempre un disegno col gesso bianco sulla lavagna nero, per farsi salvare da tre suore spogliarelliste in velo nero, alias le tre dame che riconoscono in lui l’eroe destinato a liberare la figlia della Regina della notte, Pamina, sequestrata da Sarastro.

Se la scena è piatta, unidimensionale, priva di profondità quasi a sottolineare il trasloco elementare dalla foresta di simboli massonici alla Germania postbellica, il prodigio teatrale rivive grazie alla tecnica.  Scorre una tendina ed ecco che la lavagna diventa la stanza da letto della Regina della Notte, madre dispotica e nevrotica, che canta la sua prima aria alla perfezione, salvo imbottirsi di tranquillanti. Ritorna la lavagna e dal nero dell’ardesia spunta fuori il flauto magico, disegnato col gessetto bianco come i campanellini di Papageno, per materializzarsi in un bastoncino d’oro sospeso nell’aria fra le mani di Tamino che ne resta abbagliato.

Poi la scena cambia e quando bisogna passare dalla cultura alla natura, la scuola si dilata in un bosco di alberi frondosi che rappresentano il regno di Sarastro, coi templi della ragione, della saggezza, e della natura, e i tre fanciulli, minatori con faretto in fronte, che esortano l’eroe alla fermezza, alla pazienza, al silenzio. Altamente poetica la nuova metamorfosi della lavagna in un rettangolo bianco latte, pieno di palloncini colorati, per mettere in scena gli animali selvatici, alias sei danzatori che con le maschere in testa si fanno ammansire dal suono incantato del flauto. Mansueto come loro, ma in nome del politicamente corretto, il truce Monostrato, servo di Sarastro e carceriere di Pamina con ambizioni di sedurla, non è più un nero, ma un  grassoccio in calzoni corti  dai capelli rossi (il tenore Marcello Nardis)  messo fuori gioco dalla saggezza di Sarastro che neutralizza la furia vendicativa della Regina della notte, promettendo a Pamina l’amore eterno di Tamino e il perdono per la madre.

Lo spettacolo corre con la levità di una fiaba sfrondata della sua complessità sino all’estremo. Per quanto precisa, la direzione di Spotti sembra a volte mancare di intensità e potenza, incurante dei tempi e del senso del sublime, come per adattarsi meglio alla semplificazione della dislocazione. In compenso, le voci sono superbe. Puntuale e potente quella del tenore Juan Francisco Gatell nel ruolo di Tamino scolaretto; ottima quella del baritono austrico Markus Werba che recita con brio la parte di Papageno bidello; superbo il Sarastro del basso  John Relyea, sempre solenne e  incisivo.

In crescendo il soprano Emöke Baráth che nel vibrato, nel timbro, nel colore segue perfettamente il percorso ascendente dell’iniziazione di Pamina, dal pentimento, allo sconcerto, alla piena consapevolezza dell’amore coniugale. Diseguale invece la Regina della Notte di Aleksandra Olczyk, sicura e convincente nella prima aria, e invece vittima nella seconda di qualche affanno e sbandamento. Notevoli fra i ruoli minori, la prima Dama di Ania Jeruc e il primo fanciullo di Dorotea Marzullo.

Applausi pieni per il coro diretto da Ciro Visco, per la regia di Michieletto, benché con qualche esitazione, ma nel complesso caloroso l’apprezzamento del pubblico romano per uno spettacolo pieno di poesia.

Marina Valensise
(13 gennaio 2024)

Direttore Michele Spotti
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm/Roland Horvath
Personaggi e interpreti:
Tamino Juan Francisco Gatell
L’oratore Zachary Altman
Papageno Markus Werba
Pamina Emőke Baráth
Regina della Notte Aleksandra Olczyk
Sarastro John Relyea
Papagena Caterina Di Tonno
Monostatos Marcello Nardis
Primo Sacerdote / Secondo Armigero Arturo Espinosa
Secondo Sacerdote / Primo Armigero Nicola Straniero
Prima Dama Ania Jeruc
Seconda Dama Valentina Gargano
Terza Dama Adriana Di Paola
Orchestra e coro dell’Opera di Roma
Maestro del coro  Ciro Visco

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