L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Classiche calligrafie

di Roberta Pedrotti

Il barbiere di Siviglia apre  fra gli applausi la stagione lirica del Regio di Parma nel classico allestimento di Pierluigi Pizzi, con la direzione calligrafica di Diego Ceretta e un cast che si divide fra la convincente consapevolezza stilistica di Maxim Mironov (Almaviva), Marco Filippo Romano (Don Bartolo) e Roberto Tagliavini (Don Basilio) e le prove più interlocutorie di Maria Kataeva (Rosina) e Andrzej Filończyk (Figaro).

PARMA, 12 gennaio 2024 - L'inaugurazione della stagione lirica del Regio di Parma è un successo, non c'è dubbio. Risate, applausi, un'atmosfera che mano mano si scioglie, calde approvazioni per tutti alle uscite finali. D'altra parte, bastava leggere la locandina di per prevederlo: tutto perfettamente confezionato per piacere, con il vispissimo decano della regia a riprendere uno dei suoi spettacoli più felici degli ultimi anni, un giovane direttore emergente e lanciatissimo, un titolo infallibile. Tuttavia, qualche distinguo va pur fatto, perché non è detto che la vittoria già chiara a tavolino sia da registrare senza nemmeno un interrogativo.

Quando debuttò nel 2018 a Pesaro, Il barbiere di Siviglia firmato da Pierluigi Pizzi fece subito innamorare [Pesaro, Il barbiere di Siviglia, 13/08/2018]. Si può considerare uno degli allestimenti classici più riusciti, se non il più riuscito, del titolo rossiniano da parecchi anni a questa parte: lieve, luminoso, essenziale e sofisticato, ricco di dettagli autoironici ben celati in una ben orchestrata commedia, ironica senza macchiette. L'impianto non invecchia, ma a Parma si appesantisce un po' con qualche gag superflua che al pubblico pare piacere molto sebbene più che aggiungere alla fine tolga qualcosa all'equilibrio del gioco attoriale. D'altronde, se in origine la magia era plasmata nelle caratteristiche degli interpreti, ogni cambio di cast dovrebbe essere studiato e metabolizzato in un rinnovamento che forse i tempi di prove non hanno qui permesso (per esempio, la Rosina minuta, sottile e maliziosa di Aya Wakizono non si poteva replicare pari pari nell'alta ed energica Maria Kataeva, né è chiaro perché Figaro parli di "capello nero" se è fulvo castana); resta la gradevolezza di superficie, si conferma l'eleganza leggiadra del disegno, non si ritrova la medesima compenetrazione fra interpreti e personaggi, mentre nel primo quadro si finisce per essere distratti dallo scorrere continuo dell'acqua della fontana, che al Regio si sente fin troppo bene.

Un senso più calligrafico che autenticamente teatrale si respira nella concertazione di Diego Ceretta che in un paio d'anni è diventato uno dei giovani direttori più presenti nei cartelloni italiani. Non senza merito: è musicista scrupoloso, preparato, educatissimo e lo dimostra nell'ouverture, calibrata con gusto neoclassico in tempi e dinamiche ragionevoli, attenzione al dettaglio, trasparenza di colori. Tuttavia torna alla luce un elemento che già aveva fatto capolino in altre – belle – serate affidate al direttore milanese: una tendenza al diligentissimo “far bene” in cui però non emerge ancora un marchio di autentica personalità. Al termine di questa Sinfonia del Barbiere applaudiamo soddisfatti di aver ascoltato un bel saggio di una pagina orchestrale del primo Ottocento, ma non sentiamo la scintilla d'ebrezza che fece irrompere Rossini sulle scene come “Napoleone della musica”. La Toscanini in buca conferma bel suono, buona duttilità dinamica e agogica, pronta rispondenza a un controllo equilibrato ma non monotono per tutta l'opera, e tuttavia manca ancora nel rapporto con il palcoscenico e il canto quella fragrante, franca teatralità che farebbe spiccare il volo allo spettacolo. Naturalmente il tempo potrà aiutare Ceretta, se non verrà travolto dal turbine di impegni, a dire la sua e realizzare un lavoro di più compiuta sintesi nella visione d'insieme e nell'unione di tutte le componenti dell'opera. Per esempio, piace notare la cura della resa timbrica e ritmica degli interventi del sistro, ma a questa non corrisponde ancora l'incisività febbrile (si badi bene, non si parla di frenesia esteriore, che per fortuna Ceretta già rifugge, ma di più intimo e vario moto interiore) del crescendo rossiniano. Piace anche moltissimo la volontà di eseguire l'opera nella sua piena integralità (cosa importa se i recitativi sono, com'era prassi, affidati a un collaboratore? Ci gustiamo finalmente la completezza della commedia di Sterbini da Beaumarchais) e il continuo con il violoncello (Pietro Nappi), ma la realizzazione al fortepiano (Gianluca Ascheri) potrebbe essere più fresca e spiritosa, così come l'acustica del Regio avrebbe senz'altro reso interessante la presenza del continuo stesso anche nei numeri musicali. Insomma, siamo senz'altro di fronte a un musicista di qualità e a un giovane molto promettente, che stiamo imparando a conoscere e per il quale ci auguriamo che l'esperienza porti anche una più definita affermazione di personalità.

Anche la compagnia di canto non esprime, difatti, una direzione univoca e pare nettamente divisa in due sul piano stilistico e qualitativo. Da una parte troviamo Maxim Mironov (Almaviva), Marco Filippo Romano (Don Bartolo) e Roberto Tagliavini (Don Basilio), dall'altra Maria Kataeva (Rosina) e Andrzej Filończyk (Figaro). Mironov parte un po' in sordina, nella cavatina non sembra in ottima forma, la classe dell'artista è, però, sempre presente e intatta e man mano che l'opera procede anche la voce si rinfranca, il personaggio emerge sempre più nobile, sicuro, divertito, il cantante è sempre più efficace e la recita culmina con un'esecuzione davvero eccellente del rondò “Cessa di più resistere”, senza risparmiarsi o cedere, come invece colleghi titolatissimi, alla tentazione di qualche battuta di comodo tacet nella stretta. Romano si conferma impagabile cantante attore, chiaro e incisivo nella parola, preciso e timbrato nella musica; qualche concessione buffa (il balletto nel finale dell'aria) pare superflua, ma al pubblico piace. Nel giorno del compleanno di Michele Pertusi, che fu Basilio a Pesaro, eredita la parte il concittadino parmigiano Roberto Tagliavini e lo fa benissimo, con sicurezza, garbo, gusto e buon canto. Viceversa, seppur chiari nella dizione, risultano più lontani dall'idioma rossiniano Kataeva e Filończyk. Il mezzosoprano sfodera con sicumera sciabolate acute di indubbio effetto ma non sempre indubbia intonazione, così come non sempre nitida e precisa è la coloratura, mentre il piglio sembra più confacente a uno spavaldo giovanotto en travesti o a un repertorio di qualche decennio posteriore. Anche Filończyk si trova in qualche impaccio nei passi d'agilità o di canto sillabato, arranca talvolta nella tenuta dei tempi, sottolineando l'espressione con un gusto che potrà anche far presa epidermica, ma non è quello che ci aspetterebbe per un interprete rossiniano di oggi. Speriamo che entrambi si rimbocchino le maniche nello studio in vista del Barbiere che li vedrà impegnati proprio a Pesaro la prossima estate.

Completano la locandina, insieme con il coro del Regio preparato da Martino Faggiani, l'irrinunciabile Fiorello/Ufficiale di William Corrò (da Pesaro a Parma, il vero factotum sulla scena), l'Ambrogio di Armando De Ceccon e la Berta di Licia Piermatteo, allieva dell'Accademia verdiana chiamata in tempi strettissimi a sostituire l'indisposta Elena Zilio.

Un teatro Regio gremitissimo, con volti noti in sala fra cui Gregory Kunde e Katia Ricciarelli, applaude festoso e dà così un felice avvio al 2024 operistico parmigiano alla vigilia della festa del patrono Sant'Ilario, in occasione della quale, fra le medaglie d'oro conferite come da tradizione dal Comune, c'è anche quella al baritono Luca Salsi.


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