Recensioni - Opera

Senza teatralità il Don Carlo scaligero

Solo la compagnia di canto salva uno spettacolo monotono e plumbeo

Giunge a conclusione con Don Carlo di Giuseppe Verdi la trilogia di inaugurazioni dedicate all’analisi del potere voluta dal Maestro Chailly. Passata la sbornia mondano televisiva del 7 Dicembre proseguono le repliche di uno spettacolo che nel suo insieme non convince.

Un blasonato regista (Lluis Pasqual), una pluripremiata costumista (Franca Squarciapino), un rinomato scenografo (Daniel Blanco), che assommano esperienze internazionali, premi e riconoscimenti di ogni tipo. Ci sarebbero tutte le carte in regola per una produzione indimenticabile, invece il teatro è quella strana cosa per cui le intenzioni sai come entrano dal retropalco, ma non sai mai come usciranno dal boccascena.

Il regista nel suo commento sostiene di aver seguito le indicazioni del Maestro Chailly, che avrebbe richiesto una scenografia poco ingombrante per facilitare i cambi e dare più fluidità all’opera. A conti fatti ci troviamo davanti ad una torre circolare in finto alabastro che assomiglia più a plastica colorata. Questa, girando su sé stessa, aprendosi e chiudendosi, crea vari ambienti in sostanza tutti simili. Alcune grandi inferriate decorate richiamano l’ambiente claustrale, qualche proiezione di alberi stilizzati, una pedana nera con alcuni gradini, un montacarichi con botola usato sporadicamente.

Scarso utilizzo della profondità, tutti i cantanti a proscenio a cantare frontalmente. Il coro sempre immobile a destra e a sinistra. Nessuna interazione drammatica, pose d’antan e recitazione convenzionale. Costumi classici, quasi tutti neri, che sembrano usciti tali quali dalla vetusta storia del costume di Auguste Racinet.

Le scene di massa o immobili o confuse. L’autodafé risolto con una sorta di preparazione dietro le quinte di un retablo sui cui per un breve momento appare il Re in tutto il suo sfarzo. La scena dell’irruzione del popolo all’Escorial risolta sostanzialmente con una serie di pose e tableaux vivant.

Purtroppo non si tratta di predilezione per messe in scene classiche oppure innovative: alla Scala è completamente mancato il teatro e la teatralità e senza teatro le opere di Verdi, soprattutto le opere di Verdi, non funzionano, sono noiose. Non andiamo a teatro per vedere un concerto in costume, non si va a teatro solo per sentire cantare bene o per sentire un’orchestra ben diretta. Si va per vedere uno spettacolo composto di una pluralità di arti, di un amalgama di ispirazioni che lavorano di concerto, che fanno vivere il dramma, ne danno una lettura interessante, completa, nel migliore dei casi innovativa e sconvolgente.

Cosa abbiamo visto alla Scala? Una serie di grandi artisti, professionisti di vaglia con numerose medaglie al petto che si ignorano. Ognuno fa il suo con grande, immensa, sconfinata perizia, ma sembra farlo da solo. Anche il genio da solo è inutile. Lo spettacolo langue, non coinvolge, annoia, a tratti è addirittura insopportabile.

La compagnia di canto fa del suo meglio ma viene inesorabilmente trascinata in un’atmosfera che non permette al cantante di esprimersi come personaggio, di coinvolgere, di interpretare. Resta il canto che da solo raramente basta anche se di altissimo livello.

Trionfatrice della serata, una vera fuoriclasse nonostante tutto, è l’Elisabetta di Anna Netrebko. Il soprano russo è artista di vaglia e riesce a sopravvivere anche ad una messa in scena sbilenca: si crea un suo personaggio, lo porta avanti con coerenza e riesce ad incantare su tutta la linea. Indimenticabile il suo “Tu che le vanità”, accolto da un profluvio interminabile di applausi. La voce è quella che conosciamo: sorvegliata, armonica, timbrata in tutti i registri, capace di passare senza sforzo apparente da profonde note di petto ad acuti adamantini e filati sul fiato. La migliore Elisabetta da decenni a questa parte.

Al suo fianco brilla anche la Eboli di Elina Garanca, notevole soprattutto nel “Ah, Don fatale, ah Don crudele”, cantato con forza e convinzione, ove la cantante riesce ad esaltare il suo scintillante timbro mezzo sopranile, sfaccettato di chiaroscuri e sfavillante nell’acuto.

Nella compagine maschile si segnalano l’ottimo Marchese di Posa di Luca Salsi e il Filippo II sorvegliato e prudente di Michele Pertusi. Meno a fuoco e affaticato il Don Carlo di Francesco Meli. Jongming Park era il grande inquisitore.

Riccardo Chailly da dello spartito una lettura classica e sorvegliata, che purtroppo risente dell’esito complessivo non convincente dello spettacolo.

Buon successo di pubblico per tutti nel finale e ovazioni per Anna Netrebko.

Raffaello Malesci (Sabato 16 Dicembre 2023)