“Don Carlo” al Teatro alla Scala di Milano

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 2023-2024
“DON CARLO”
Opera in quattro atti su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini
Musica Giuseppe Verdi
Filippo II, Re di Spagna MICHELE PERTUSI
Don Carlo, infante di Spagna FRANCESCO MELI
Rodrigo, Marchese di Posa LUCA SALSI
Un frate JONGMIN PARK
Il frate (Carlo Quinto) HUANHONG LI
Elisabetta di Valois ANNA NETREBKO
La Principessa d’Eboli ELINA GARANCA
Tebaldo, paggio d’Elisabetta ELISA VERZIER
Il conte di Lerma / Un araldo reale JINXU XIAHOU
Una voce dal cielo ROSALIA CID
Deputati fiamminghi CHAO LIU, WONJUN JO, HUANHONG LI, GIUSEPPE DE LUCA, XHIELDO HYSENI, NEVEN CRNIC
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Regia Lluís Pasqual
Scene Daniel Bianco
Costumi Franca Squarciapino
Luci Pascal Mérat
Video Franc Aleu
Movimenti coreografici Nuria Castejón
Nuova produzione del Teatro alla Scala
Milano, 22 dicembre 2023
Era dal 2008 che il Don Carlo (nella versione in quattro atti del 1884, approntata appunto per Milano) non inaugurava la stagione scaligera. Un tempo abbastanza breve, se non si trattasse, appunto, di Don Carlo, l’opera verdiana oggi più rappresentata nei teatri di tutto il mondo (anche più di Aida e Rigoletto). Le conseguenze extramusicali di questa straordinaria diffusione non sono neutre, giacché il libretto trasmette una sintesi completa della leyenda negra spagnola, di cui sarebbe opportuno parlare in termini più critici. La nuova produzione milanese ha riscosso un successo notevole, grazie all’altissima qualità di tutte le componenti: musicale, vocale e spettacolare. Quattro dei sei personaggi principali, inoltre, sono impersonati da cantanti di eccezionale bravura, che incantano il pubblico e gli strappano prolungati applausi a scena aperta. Il motore del successo è comunque la concertazione di Riccardo Chailly, che lascia a volte stupefatti, sia per la capacità di sostenere tempi piuttosto lenti, in netta controtendenza rispetto alle mode attuali, sia per lo studio dei colori e delle dinamiche interne. Il suono nasce dall’orchestra, accompagna i cantanti valorizzandone le voci, per poi impennarsi nelle sonorità o imporsi con forti contrasti cromatici. Ma non si tratta di compiacimento sinfonico: non c’è prevedibilità alcuna nell’agogica, nell’emergere di singoli strumenti, nel fraseggio orchestrale, nel continuo fluire di tinte disparate e di effetti scabri. È come se Chailly avesse deciso di abdicare alla ricerca di un mitico “suono verdiano”, unitario e coeso, perché la partitura propone piuttosto un suono che si rinnova sempre, parimenti al procedere narrativo del dramma in forma di “mosaico” (Verdi dixit). Del resto, oggi Chailly considera Don Carlo «come una sorta di recitativo continuo, un’opera di dialoghi» (La Scala. Rivista del Teatro, 12/23): impostazione che si traduce in una valorizzazione del declamato, soprattutto per gli interpreti dell’infante di Spagna, Rodrigo e Filippo II (non a caso, le tre “voci italiane” della compagnia). Francesco Meli aveva già cantato Don Carlo alla Scala nel 2017, succedendo a Fabio Sartori (2013), Ramón Vargas (2009), Stuart Neill (Sant’Ambrogio 2008) e Luciano Pavarotti (se si vuole rievocare anche l’infausta edizione inaugurale del 1992). Senza alcun dubbio, Meli è il miglior interprete di questo ruolo degli ultimi trent’anni; nella sua “personalità vocale” di tenore, drammatica e lirica al tempo stesso, è il profilo completo del personaggio: squillo eroico, disperazione elegiaca, passione e ribellione si alternano nella linea di canto, appoggiandosi a una tecnica di controllo del fiato davvero straordinaria. Anna Netrebko è un’Elisabetta indimenticabile, perché la tecnica strepitosa e l’uniformità di registro (che ha pochi confronti sopranili) le permettono di dosare momenti di autorità, fierezza, inquietudine e disperazione, in un quadro coeso e naturale (la cui vetta è l’aria del IV atto, la più applaudita della recita, con reiterate richieste di bis). Michele Pertusi, veterano della parte di Filippo II, offre un personaggio vocalmente unitario e molto convincente, tutto improntato alla sobrietà e dignità espressive. La vocalità empatica e generosa di Luca Salsi fa di questo baritono un Rodrigo da manuale, anche per la naturalezza della recitazione e del porgere. Elīna Garanča, al contrario, non è un Principessa d’Eboli sullo stesso livello dei precedenti, sia per un certo nervosismo generale, che la induce alla fretta nell’enunciazione, sia per alcuni difetti (il trillo impreciso nella «canzon saracina», la tendenza al parlato, gli acuti non troppo solidi in «O don fatale»). Jongmin Park è un Grande Inquisitore solenne ed efficace per il timbro, ma lascia a desiderare nel fraseggio e nel “corpo” delle note basse. Se gli altri interpreti sono tutti corretti, il Coro del Teatro alla Scala, istruito da Alberto Malazzi, fornisce una prova stupenda, integrandosi perfettamente in quel lavoro di meticoloso fraseggio e ricerca espressiva che Chailly richiede alle voci soliste. All’ininterrotta mutevolezza dell’enunciazione musicale non si abbina una parte visiva parimenti innovativa, e neppure sperimentale. Lluis Pasqual, un tempo enfant terrible delle regie d’opera, oggi si presenta come un compassato disegnatore di spettacoli eleganti; chi credeva che volesse scandalizzare il pubblico scaligero deve essere rimasto tremendamente deluso. Ma ancor più disingannato deve essere qualunque persona minimamente avvertita del dibattito sulla leyenda negra, visto che il regista di formazione catalana sembra del tutto disinteressato al tema (anzi, ha confessato di aver voluto realizzare un Don Carlo “per” La Scala, adattandolo alle aspettative del pubblico italiano). La scena è su fondo nero; neri sono i costumi di Franca Squarciapino, di un’eleganza sfarzosa, che emana ricchezza e potere; gli unici personaggi a brillare di altri colori sono quelli che concentrano malvagità e crudeltà disumane: il re e l’inquisitore. L’apporto registico più originale è nel complicato montaggio del retablo, nella scena dell’auto da fe, incassato in una torre semovente di alabastro, costruita da Daniel Bianco e al cui centro si collocano prima Filippo e poi l’inquisitore. L’eleganza dell’oro sul nero e dei costumi è certamente ben riuscita. Resta però il sospetto che il regista – che vorrebbe denunciare le storture del potere e i meccanismi oppressivi della religione – finisca per subire il fascino estetico di quegli apparati, compiacendosi di ricrearne la grandezza nefasta, ma dimenticandosi l’obbiettivo della denuncia stessa.   Foto Brescia & Amisano © Teatro alla Scala