Libretto di Sem Benelli
Musica di Italo Montemezzi

ArchibaldoEvgeny Stavinsky
ManfredoRoman Burdenko
AvitoGiorgio Berrugi
FlaminioGiorgio Misseri
Un giovanettoAndrea Tanzillo
Un fanciullo  Valentina Diaz
FioraChiara Isotton
AncellaFan Zhou
Una giovanettaSilvia Spruzzola
Una vecchiaDaniela Salvo
DirettorePINCHAS STEINBERG
RegiaÀLEX OLLÉ / LA FURA DELS BAUS
SceneALFONS FLORES
CostumiLLUC CASTELLS
LuciMARCO FILIBECK

L’amore dei tre re è un’opera oscura, buia, che pare brancolare nel nero come un cieco pazzo, intrisa di ricercata pornografia poetica, truculenta negli eventi e nei sentimenti, costruita su una narrazione terrificante eppure densa di sgocciolamenti sensuali e sessuali, con nemmeno troppo velate ambiguità di muschi bagnati, bocche assetate e bianchi veli intrisi di molli fragranze. Il libretto di Sem Benelli, come è facile intuire, si può far rientrare, sebbene non totalmente, all’interno di un dannuzianesimo insopportabile (Sciascia così senteziava in merito ai dannunziani), nei margini di un decadentismo decadente (bisticcio voluto), desideroso di “attraversare” D’Annunzio, e lo stesso Pascoli, eroi poetici di un mondo altro, che le nuove generazioni sentivano ancora presenti, forse troppo pressanti. Comunque sia, ciò che deriva da tutto questo è una varietà di giudizi sulla qualità artistica ed interiore del lavoro, giudizi che a volte paiono più riflettere l’adorazione per D’Annunzio, e quindi il rifiuto di chi ha peccato nel tentare di imitarlo o, per rovesciamento, il rigetto verso un testo vuoto e “inutile” (accuse, per altro, che parte della critica letteraria ha rivolte, e ancora rivolge, al Vate di Fiume). Il mio giudizio positivo in merito al testo, di certo non eccellente, ma d’indiscutibile interesse – almeno per un letterato di formazione come chi scrive – vale poco o niente, perché qualsiasi cosa se ne possa pensare, la produzione di questo libretto ha permesso a Montemezzi di creare la sua partitura, molto distante dall’essere considerata di scarso valore o mero riuso di stili compositivi altrui. Nel microcosmo testuale di vicende da medioevo torbido, la musica acquista tinte man mano differenti, fosche, umbratili, tensive, orrorifiche, angosciose, ammantando di disperazione anche l’amore, che qui più che mai è senza via di scampo, condannato, mortifero già di partenza. Montemezzi, insomma, attinge sì al passato musicale europeo, ma per rielaborarlo alla luce del suo quotidiano culturale, e abilmente giunge dove il libretto non arriva: coniuga con successo lo sviluppo del dramma a quello della parola, mediante colori netti ed efficace ricerca armonica.


Per una simile complessità, così intricata proprio perché le linee culturali che si intersecano sono molteplici e contraddittorie, la bacchetta di Pinchas Steinberg appare quanto mai propizia: per dirigire lavori del genere bisogna amarli, approfondirli, smontarli. Ad ascoltare la sua direzione si percepisce ogni raffinatezza, dai pizzicati degli archi, glaciali ed incostanti, che accompagnano l’incedere spettrale e intransigente di Archibaldo, ai fiati, scintillanti d’incubo, che spirano il dramma di un’epoca storica quasi occulta. Ma il direttore sa pure spingere verso una sorta di sinfonismo, sia nelle dinamiche che nel mantenimento di una struttura concantenata lungo tutta l’opera, sostenuto dalla magnifica e sontuosa compagine dell’Orchestra del Teatro alla Scala.

Se però i versanti direttoriale ed orchestrale brillano per la qualità dell’esecuzione, sino ad abbagliare, quello del canto appare fin troppo annebbiato, soprattutto per un’opera così bisognosa di interpreti smaliziati e di forte personalità, dall’opulenza vocale e attoriale quasi eccessive, da esibire volutamente oltre il limite: l’Archibaldo di Evgeny Stavinksy ha tanta voce, certo non propriamente educata, eppure se la complessità del personaggio risaltasse, si potrebbe metterci una pezza; il problema è che l’enigmaticità della parte è apparsa del tutto limata, le impicazioni psicologiche poco scandagliate, il fraseggio sbiadito e l’articolazione dell’italiano in più di un caso ai limiti del comprensibile (se non del tutto); Roman Burdenko, Manfredo, ci ha messi in apprensione sin dall’inizio, quando, dopo poco che era in scena, una nota troppo alta si è velata e ne è seguito un colpo di tosse chiaramente udibile dalla nostra zona: il baritono si è ripreso, ma ha avuto un andamento altalenante, impreciso e poco incisivo, così il personaggio del marito amorevole tradito è rimasto nell’ombra, più di quanto già non fosse nel testo; Giorgio Berrugi, invece, si è comportato bene come Avito, mostrando una linea di canto pulita, sicura e raffinata, forse troppo per un’orchestrazione tanto ribollente come questa (a tratti risultava coperto).
Chi invece si è ritagliata un meritato plauso è stata Chiara Isotton, soprano in rapidissima e sacrosanta ascesa: si può discutere, certo, su quanto la parte della diva infiammatrice sia nelle sue corde, ma non sulle sue qualità vocali eccezionali, la relativa facilità con cui affronta la parte, fino a degli acuti micidiali eppure precisissimi – che personalmente non ho percepito troppo spinti -; significativa, infine, anche la bella dose di protagonismo, che l’ha imposta sopra tutto e tutti (protagonismo mutilato, ahimè, da una sterile regia).

Menzione onorevole per il Flaminio di Giorgio Misseri, impeccabile vocalmente, con una vis attoriale palpabile. Molto bene anche il coro del teatro e le altre voci del folto cartellone.

Deludente oltre ogni dire la parte visiva: Àlez Ollé riempie la scena di catene (10 kilometri), unico vero polo di attrazione dell’allestimento, con dei suggestivi praticabili nascosti, che poi si alzano fino a creare effetti da illusione ottica. Che altro dire? Nulla più. Il pacchetto è innegabilmente fascinoso, confenzionato ad arte, ma resta un pacchetto vuoto. Il contenuto è un lavoro sui cantanti di normale routine, con costumi osceni e luci poco sfruttate. “Tante catene per nulla”, insomma, che se ne sono rimaste lì, inermi, per quasi tutto lo spettacolo.

Mattia Marino Merlo