Peter GrimesBrandon Jovanovich
BoyTommaso Axel Versari
Ellen OrfordNicole Car
Captain BalstrodeÓlafur Sigurdarson
AuntieMargaret Plummer
First nieceKatrina Galka
Second nieceTineke Van Ingelgem
Bob BolesMichael Colvin
SwallowPeter Rose
Mrs. SedleyNatascha Petrinsky
Rev. Horace AdamsBenjamin Hulett
Ned KeeneLeigh Melrose
HobsonWilliam Thomas
A lawyerRamtin Ghazavi
A fisherwomanEleonora de Prez

DirettriceSIMONE YOUNG
RegiaROBERT CARSEN
Scene e costumiGIDEON DAVEY
LuciROBERT CARSEN
ePETER VAN PRAET
DrammaturgiaIAN BURTON
VideoWILL DUKE
CoreografiaREBECCA HOWELL

Nel Borgo, costantemente battuto da venti salmastri ed irritanti, è il mare il giudice sommo, l’amministratore insindacabile delle vite dei suoi abitanti. La salsedine, che si leva eterna dal continuo frangersi delle onde sulla costa, scavata come un osso malato e vicino a rompersi, corrode le anime di chi vive quei luoghi, agendo sulla mente e lo spirito, in un lavorìo continuo, astioso, dal retrogusto soprannaturale. Il mare s’insinua così nei cervelli coi suoi viscidi tentacoli, e trasforma le persone attraverso la follia e la paura, che quel luogo così conosciuto, eppure ignoto, alimenta e porta con sé. Lo spettrale villaggio di pescatori, infatti, animato da gente che vive sul mare, nel mare e per il mare, poggia le sue fondamenta, putrescenti e maleodoranti, sulla contraddizione di non essere riuscito, più o meno inconsciamente, a venire a patti con quella temuta divinità, relegando tra i flutti le proprie meschinità ed angosce: Peter Grimes, più di chiunque altro, subisce gli incubi partoriti dal mare; per esso e in esso perde la testa, la vita; addirittura viene accusato, non sapremo mai se a ragione, di aver commesso atti immondi, bestiali, tra quelle onde; onde così ingannatrici da impedire una visione attendibile dell’orizzonte degli eventi, come se tutte insieme formassero un buco nero che inghiotte gli uomini e la loro umanità, per risputare mostri, tanto trasformati da non accorgersi nemmeno di esserlo diventati.

Il mostro, però, talvolta si annida soltanto negli occhi di chi lo vede, o si sforza violentemente di vederlo. O ancora si cela colpevolmente dietro coloro che accusano il prossimo, quasi più mostri, forse, di chi ritengono tale.
Grimes, uomo contraddittorio, accusato e perseguitato, straripante di sensi di colpa e timori, desideroso di pace e riscatto, ma troppo perduto per ottenerli davvero, vive un incubo ad occhi aperti, un incubo lucido che Robert Carsen sviluppa genialmente all’interno di un claustrofobico stanzone, tappezzato di assi di legno scuro, facilmente immaginabili come umide e viscide. Lo stanzone, alla maniera di un’aberrazione visiva, di volta in volta si trasforma in un luogo onirico, corrispettivo degli ambienti del libretto, pervaso di un senso costante di allucinazione e distorsione. Sopra le pareti di legno, muri di un bianco opaco accolgono alcune proiezioni in bianco e nero, quasi sempre primi piani orrorifici dei volti dei protagonisti, ripresi in diretta come in un film dal sapore lynchiano. A questo impianto rustico ma elegante, spartanamente arredato con pochi e nudi accessori, corrispondono luci di potenza inaudita, che rendono la narrazione visiva solo apparentemente oscura, costruita piuttosto su un alternarsi inquieto di ombre e riflessi acquitrinosi, in perenne dialogo col mare esterno.


Il mare, infatti, in un paradosso meno assurdo di quel che sembra, non si vede mai, perché Carsen ce lo nega nella sua palese esteriorità; l’acqua salmastra è invece qualcosa che circonda sinistramente il luogo ideato dal regista, è un’entità che affoga le anime dei paesani col suo non lasciare scampo: il mare, insomma, è sempre lì, grida, graffia, scortica anime e luoghi; il mare, invedibile, è sempre presente, nella musica tempestosa e subacquea di Britten. Simone Young ne è giustamente consapevole, e dirige rafforzando ancor di più l’insistenza marina insita nella musica, espandendo suoni ed effetti come in un’alta marea musicale che ci sommerge fino a trascinarci via con sé. Ma non è solo inondazione di volumi e ritmi serrati, proprio no, è anche e soprattutto lavoro sul dettaglio, sulla singola onda del pentagramma, che con cadenza regolare sembra lasciare sui piedi del pubblico spiacevoli alghe, viscide, tali da provocare disagio: disagio, sì, perché instillare sentimenti perturbanti, fastidiosi, insinuanti è necessità vitale quando si esegue questa particolare opera, e la direttrice australiana sa farlo con abilità non meno che perfetta, addirittura quasi demoniaca. La sua lettura sanguigna, che sa pure svelare ogni fragilità e che trova nel lirismo pietoso di Ellen momenti di dolorosa malinconia – Nicole Car, va subito precisato, interpreta la tenera maestra del villaggio con eccelsa perizia vocale, sostanzialmente impeccabile, accompagnandola a una recitazione curatissima e quasi maniacale, velatamente ambigua nel suo rapporto con Grimes e il Borgo -, la lettura della Young, insomma, esplode con l’esplodere della scena, con l’agitarsi e il gesticolare del coro, in una sintonia stupefacente con le ragioni di Carsen.
Questi, al di là dello scavo sui singoli personaggi, compie il lavoro più complesso sullo straordinario Coro del Teatro alla Scala, nei fatti dando l’impressione di aver discusso vis-à-vis con ogni singolo cantante, istruendo ognuno sul da farsi per creare un’unica entità, un unico grumo di sangue composto da decine di gocce autonome: si capisce dunque fin da subito come il coro di paesani sia il coprotagonista (o vero protagonista) dell’opera, giudice odioso e pauroso che troverà sempre un uomo da condannare per esorcizzare i propri peccati.
E Grimes, di certo, ne ha di peccati.

Brandon Jovanovich ce li mostra tutti, uno per uno, propagando oltre il palcoscenico la violenza psicologica che subisce, e provoca lui stesso. Il cantante non è però sempre irreprensibile: il monologo del secondo atto, estenuante, è retto con eccellente fibra attoriale, ma, ahimè, con intonazione precaria, linea di canto in costante difficoltà e note poco felici. Il suo riscatto parziale avviene durante l’ultima scena in solitaria, dove la follia delle acque lo travolge completamente, e quell’inneggiare a Davy Jones, la tomba del mare, non può che rivelarsi fatalmente profetico.
Eccezionali lo stuolo infinito di artisti coinvolti, facce sempre diverse dello stesso villaggio, anime inquiete condannate a vivere e soffrire in quel luogo dimenticato: da sottolineare il Capitano Balstrode di Ólafur Sigurdarson, incarnazione della cinica saggezza marinara, bonaria solo in superficie, e la Zietta di Margaret Plummer, acida proprietaria del “Cinghiale” poco avvezza al pensiero elaborato. Ma tutti, davvero, meriterebbero un piccolo approfondimento a parte.
Infine, dopo tanti volti e patimenti, giunge, con falsa tranquillità, la conclusione dell’opera, letta da Carsen, visivamente e moralmente, come un ricomporsi della scena processuale d’apertura, col coro che riprende i suoi posti sulle squallide panche e con un “nuovo” Grimes che si avvia al banco degli imputati. Tutto questo riporta a uno stato di quiete solo superficiale: il Borgo avrà sempre necessità di espiare, tramite il “diverso”, la propria stortura, e sempre si dovrà trovare un Grimes da condannare. La pace, che odora d’inferno, è in fondo al mare; ci resta solo da affondare la nave.

Mattia Marino Merlo – Teatro alla Scala, 24 ottobre 2023