Parigi: Lohengrin convince, Don Giovanni meno

Se dovessimo istituire un premio per la migliore idea originale a proposito di un capolavoro della musica d’arte di tutti i tempi, l’imbarazzo sarebbe grande. In questi ultimi tempi ne abbiamo viste di tutti i colori, certo è che i registi delle due prime nuove produzioni della stagione 2023/2024 dell’Opéra National di Parigi si troverebbero in una posizione avanzata. Claus Guth per il Don Giovanni inaugurale in un allestimento nuovo per Parigi ma nato a Salisburgo nel 2008 e la nuova stella della regia Kiril Serebrennikov, noto soprattutto per un Parsifal che a Vienna ha fatto molto discutere, si sono dati parecchio da fare per rendere poco comprensibile o comunque per non semplificare una drammaturgia che gli Autori avevano consegnato alla storia limpida e chiara. Oltretutto i due spettacoli sono nati nel periodo in cui Gustavo Dudamel si è allontanato da Parigi.

A questo punto Alexander Soddy, previsto alla guida dell’Orchestra stabile dell’Opéra per Don Giovanni è stato dirottato sul Lohengrin, orfano di Dudamel, mentre per Don Giovanni il podio è stato diviso da due giovani direttori italiani, Antonello Manacorda e Giancarlo Rizzi.

Detto questo, l’idea di Guth su Don Giovanni è quella di rappresentare il protagonista a un passo dalla morte, in seguito al colpo di pistola che lo colpisce nello scontro con il Commendatore. Non contento di aver spedito Rodolfo e Mimì sulla luna, Guth sposta l’azione del dramma giocoso di Mozart-Da Ponte in una foresta girevole, in cui agiscono con difficoltà tutti i personaggi della vicenda. Idea chiarificatrice? Non ci pare, nonostante l’aspetto visivo dell’allestimento fosse tutto somato pregevole (scene e costumi sono firmati da Christian Schmidt, le luci da Olaf Winter, le coreografie da Ramses Sigl).

È dal punto di vista musicale che questo Don Giovanni faceva acqua. A noi è capitato di ascoltare la compagnia B, formata da elementi meno esperti, ma desiderosi di ben figurare e di mettersi in luce. Poco aiutati dalla concertazione e direzione ondivaga del giovane Rizzi, hanno finito per restare, chi più chi meno, in ombra.  Chi più si è messo in evidenza, per mezzi vocali cospicui e abilità scenica è stato Kyle Ketelson, al debutto all’Opéra, un Don Giovanni perfettibile, ma già interessante da ascoltare. Accanto a lui non demeritava il Leporello estroverso e comunicativo di Bogdan Talos, e buone erano anche le altre due voci gravi della compagnia, John Relyea, Il Commendatore, e Guilhelm Worms, Masetto.

Fra le donne, Julia Kleiter ha fatto annunciare un’indisposizione, ma ha cantato nel complesso bene, pur non avendo la statura drammatica di Donn’Anna. Il suo Don Ottavio, Cyrille Dubois, non spicca per espressività, ma canta nel complesso bene. Meno interessanti le prove di Tara Erraught, Donna Elvira e, soprattutto, di Marine Chagnon in Zerlina fresca acquisizione della Troupe lyrique varata dalla nuova gestione dell’Opéra.

Più articolato il discorso sul nuovo, questo sì, allestimento di Lohengrin. Serebrennikov pone al centro della vicenda Elsa di Brabante che vive reclusa in una sorta di ospedale psichiatrico e la cui figura è duplicata e in certi casi triplicata da una serie di figuranti che ne rappresentano il malessere.

La scena è cupa e non si rischiara nemmeno quando appare Lohengrin, che alla recita cui abbiamo assistito non era Piotr Beczala, vittima di un male di stagione e sostituito con valore, a tambur battente, da un Klaus Florian Vogt molto compenetrato nel personaggio e più che convincente. Sulla coppia luciferina le fantasie del destrutturatore di drammaturgie wagneriane opera con grande dovizia di immagini choc, come quella del risveglio di Telramund all’inizio del secondo atto, accudito amorosamente da una Ortrud infermiera provetta che gli restituisce l’immagine ufficiale ottemperando all’ingrato compito di ristemargli l’arto artificiale che gli permette di camminare e vestendolo di tutto punto.

Ma se dovessimo elencare tutti i gesti o le situazioni incongrue o quanto meno inutili a rappresentare Lohengrin la lista sarebbe troppo lunga. Il fatto è che, nonostante i fischi che lo hanno accolto alla prima, questo è un Lohengrin che ti prende. Certo le figurazioni, i filmati e tutta la paccottiglia di modernità che gli sono messe in conto, non aiutano a comprendere il fascino di Lohengrin, o quanto meno non gli danno un nuovo volto. Ma l’esecuzione musicale, nel complesso buona, e di questi tempi non è scontato, restituisce a Lohengrin quello che a Lohengrin appartiene, il suo carico di sentimenti estremi e spesso contraddittori, che vanno ben oltre i letti di detenzione o le protesi a vista di spettatore che finiscono per diventare elementi di disturbo che non disturbano, o quanto meno disturbano moderatamente.

Venendo a parlare finalmente di musica la concertazione e direzione di Alexander Soddy sceglie, in genere, tinte tenui, pensiamo già al modo delicato con cui introduce la vicenda, e non è in linea con la rappresentazione guerresca dell’allestimento. Ci restituisce però la magia di Wagner e di questo Wagner in particolare, così legato ancora alla tradizione operistica italiana da cui si sarebbe ben presto allontanato. L’Orchestra stabile dell’Opéra gli risponde al meglio delle sue possibilità, alternando ai piani quasi impercettibili dell’avvio, momenti di suono pieno ben calibrati che bene sostengono gli interventi di un coro in stato di grazia e magnificamente preparato da Ching-Lien Wu.

La compagnia è ben calibrata, del sostituto di lusso Vogt abbiamo detto, meno centrata è la raffigurazione di Elsa da parte del soprano irlandese Sinéad Campbell-Wallace, voce dal vibrato molto intenso ma poco comunicativo, poco portata a restituire al canto dell’eroina i momenti di raccoglimento e introversione spostata com’è, complice la regia, verso un’estroversione prevaricante.

L’Ortrud di Nina Stemme è su un altro pianeta espressivo e realizza della malefica di turno un ritratto compiuto, con fraseggio dovizioso, recitazione che rifiuta ogni platealità, insomma anche in questa fase il soprano svedese che rientrava alla Bastille dopo una lunga assenza – la sua Fanciulla del West parigina risale al 2014, – è un elemento di primo piano. Più risaputo e sostanzialmente monocorde e vociferante nella sua sete di rivalsa è il Telramund di Wolfgang Koch, mentre vanno salutate con rispetto le prove sia del Köng Heinrich der Vogler del basso Kwangchui Yuan, sia quella dell’Araldo del basso-baritono Shenyang.

Aggiungiamo per dovere di cronaca i nomi di Olga Pavluk, scenografa, Tatiana Dolmatovskaya, costumista, Frank Evin, responsabile del disegno luci, Alan Mandelstham, autore dei video, Evgeny Kulagin, coreografo, per non dire del Dramaturg Danili Orlov.

La recita cui abbiamo assistito è stata salutata da un caloroso successo da una Bastille quasi piena.

Rino Alessi
(9 e 11 ottobre 2023)

La locandina

Direttore Giancarlo Rizzi
Regia Claus Guth
Scene e costumi Christian Schmidt
Luci Olaf Winter
Coreografia Ramses Sigl
Drammaturgia Ronny Dietrich
Personaggi e interpreti:
Don Giovanni Kyle Ketelsen
Donna Anna Julia Kleiter
Donna Elvira Tara Erraught
Don Ottavio Cyrille Dubois
Orchestra e coro dell’Opéra de Paris
Maestro del coro Alessandro Di Stefano
_____________________________
Regia Kirill Serebrennikov
Scene Olga Pavluk
Costumi Tatiana Dolmatovskaya
Luci Franck Evin
Video Alan Mandelshtam
Coreografia Evgeny Kulagin
Drammaturgia Daniil Orlov
Personaggi e interpreti:
Heinrich der Vogler Kwangchul Youn
Lohengrin Klaus Florian Vogt
Elsa von Brabant Sinead Campbell Wallace
Friedrich von Telramund Wolfgang Koch
Ortrud Nina Stemme
Der Heerrufer des Königs Shenyang
Vier Brabantische Edle Bernard Arrieta, Chae Hoon Baek, Julien Joguet, John Bernard
Vier Edelknaben Isabelle Escalier, Joumana El-Amiouni, Caroline Bibas, Yasuko Arita
Orchestra e coro dell’Opéra de Paris
Maestro del coro Ching-Lien Wu

0 0 voti
Vota l'articolo
Iscriviti
Notificami

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

0 Commenti
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti