Recensioni - Opera

Gran finale per la Tetralogia wagneriana a Erl con una ben riuscita Götterdämmerung

Lineare, iconica ed efficace la messa in scena, ottima la compagnia di canto.

A Erl si conclude la messa in scena della tetralogia wagneriana con Götterdämmerung. Nell’estate 2024 il ciclo sarà mostrato in forma completa.

La regista Brigitte Fassbaender termina la sua messa in scena della tetralogia liberandosi di molte pesantezze viste nella Walchiria e in Siegfrid e ritornando alla linearità e alla semplicità che già avevano convinto nell’Oro del Reno.

Nel complesso ben riuscita questa Götterdämmerung, in cui prevale una impostazione iconica, che certo giova all’insieme, anche se qua e là ritroviamo qualche caduta di stile e un ripetuto tentativo di dare al tutto un impianto borghese, a discapito dell’epicità della narrazione wagneriana.

Abbiamo una prima scena in cui le Norne altro non sono che tre vecchiette intente a fare la maglia intorno al tavolino da the, come se stessero discutendo del più e del meno. Idea originale forse, ma che non regge alla prova della drammaturgia, infatti il tutto risulta statico poiché toglie la drammaticità che deriva dell’accorgersi che il filo del mondo non si dipana più come dovrebbe (“Verflochten ist das Geflecht”), fino a spezzarsi poi inesorabilmente (“es riss”). Si travisa così il senso della scena e si tralascia l’imminente catastrofe sottesa al testo e alla musica.

In seguito, una volta spostati da solerti servi di scena teiere e tavolini, si ritorna ad una scena vuota, scarna, con Siegfried e Brünnhilde che escono dalla terra su una pedana mobile, proprio come accadeva nella Walchiria, e sono liberi di cantare la loro scena d’addio senza impacci di sorta.

La reggia dei Gibicunghi, pur richiamando la ricca borghesia, è tutto sommato pulita, con un grande divano con poltrone, molto simili a quanto visto nella tetralogia di Robert Carsen di qualche anno fa alla Fenice; un biliardo abbastanza inutile e qualche mobile bar. Il tutto però è funzionale ad un’azione che procede rapida, efficace e coerente. Il coro si muove opportunamente su passerelle rialzate rendendo lo svolgimento spiccio e veloce.

Le ondine escono anch’esse dalla terra e giocano con palloni da spiaggia colorati, ma sono comunque gestite efficacemente. Mentre per l’ultimo atto ritornano le assi stilizzate già viste nel Siegfried, assi che si piegano sul corpo esanime di Siegfried al momento della celebre marcia funebre.

Altre assi vengono staccate dai coristi e deposte intorno al corpo dell’eroe a creare la pira che, invero in un momento successivo, Brünnhilde chiederà di erigere sulla riva del Reno. Passaggio azzeccato questo e non invasivo, che lascia ampio spazio al sinfonismo wagneriano nella sua più alta espressione. Brünnhilde appare poi dall’alto e, dolente, scende per avvicinarsi alla pira sotto cui giace l’amato.

Questa nel finale si incendia, ma il rogo del Walhalla non è tale nella versione della Fassbaender, bensì è tutto interno ad un disperato Alberich che tenta invano di recuperare l’anello restituito da Brünnhilde alle Ondine del Reno. Egli, nello scorno finale, finisce per uccider il proprio figlio Hagen, colpevole di non essere riuscito nell’intento per cui era stato generato, ovvero reimpossessarsi dell’anello per la schiatta dei Nibelunghi.

Si istituisce qui un parallelo interessante fra Siegfried e Alberich, nel momento in cui entrambi sono stati generati e allevati non per amore ma per un intento utilitaristico da parte dei genitori: Wotan vuole usare l’ignaro Siegfried per uccidere il drago Fafner e recuperare l’anello, così anche Mime che ne è in un certo senso padre putativo. Lo stesso dicasi per Alberich nei confronti di Hagen, salvo che quest’ultimo è consapevole della malvagità del padre e roso dalla stessa sete di potere legata alla maledizione dell’anello. Azzeccata dunque questa lettura, che, pur non completamente fedele al dettato wagneriano, rivela parallelismi inaspettati e pregnanti.

Una conclusione in bellezza insomma, con la regia che azzecca diverse buone idee e agisce con mano più leggera, senza creare eccessive sovrastrutture, esaltando efficacemente, a differenza delle altre opere, la drammaturgia teatrale e musicale wagneriana.

Efficaci e coinvolti tutti gli interpreti. Vincent Wolfsteiner è un Siegfried vocalmente più in forma che nella precedente opera omonima, pienamente sicuro in un canto luminoso e controllato, al netto di qualche inevitabile difficoltà di una parte assolutamente monstre. Dal punto di vista scenico rimangono gli impacci già segnalati nell’opera precedente, tuttavia in questo caso la regia gli è più congeniale, dovendosi muovere meno e agire in un contesto per lo più simbolico.

Bravissima la Brünnhilde di Christiane Libor, che si conferma interprete ideale per la parte, dominandola con concentrazione e disinvoltura e impressionando per la sicurezza, il volume e l’estensione della voce. Sempre sugli scudi l’Alberich di Craig Colclough, che assurge a vero proprio motore drammaturgico di tutta la tetralogia. Un plauso incondizionato per la sua capacità di unire un canto corretto e sorvegliato ad una profonda immedesimazione con la parte recitata.

Molto efficace anche il terzetto dei Gibicunghi con un Hagen, il basso canadese Robert Pomakov, di ragionata e compassata perfidia che da il suo meglio nell’invocazione dopo la morte di Siegfried ed è livido e terribile nel solitario arioso “Hier sitz' ich zur Wacht”. Corretto e coinvolto il Gunther di Manuel Walser, così come la Gutrune di Irina Simmes.

Un plauso in particolare a Katharina Magiera, che interpreta splendidamente la scena di Waltraute oltre ad impersonare una delle Ondine, grande voce per lei e pienezza interpretativa. Professionale tutto il resto del cast: Marvic Monreal, Anna-Katharina Tonauer, Monika Buczkowska, Anna Nekhames, Karolina Makula.

Sublimi e densi gli accenti sinfonici che il direttore Erik Nielsen riesce ad ottenere dalla brava orchestra dei Festspiele Erl.

Teatro esaurito e grande successo per tutti gli interpreti nel finale.

Raffaello Malesci (Sabato 29 Luglio 2023)