A Berlino Battistelli incontra Pasolini

Grande successo alla Deutsche Oper di Berlino per “Il teorema di Pasolini” di Giorgio Battistelli tratto da film e romanzo di Pier Paolo Pasolini

Il Teorema di Pasolini (Foto Eike Walkenhorst)
Il Teorema di Pasolini (Foto Eike Walkenhorst)
Recensione
classica
Berlino, Deutsche Oper
Il Teorema di Pasolini
09 Giugno 2023 - 21 Giugno 2023

Parola di Pasolini: “Questo non è un racconto realistico, è una parabola”. La parabola di cui si parla è quella di Teorema, dimostrazione di una tesi a partire da una ipotesi attraverso l’uso di dati collegati attraverso nessi logici. Di scientifico, il teorema di Pasolini ha ben poco ma ha invece molto della parabola ideologica, figlia delle tensioni politiche del 1968, anno di nascita del noto film e del romanzo originato dal soggetto scritto dallo stesso Pasolini per il suo film.

Protagonista, nelle parole dello scrittore, è una “famiglia piccolo borghese: piccolo borghese in senso ideologico, non in senso economico. È infatti il caso di persone molto ricche, che abitano a Milano”. Paolo, il padre, è un industriale, Lucia, “donna annoiata”, è la moglie, e Odetta e Pietro sono i loro giovani figli. Durante uno dei soliti pranzi di famiglia nel giardino della loro ricca dimora, Emilia, la serva, riceve dal postino Angiolino l’annunciazione in forma di telegramma, inviato da un mittente la cui identità non sarà rivelata: “SARÒ DA VOI DOMANI”. È l’ospite, “straordinario prima di tutto per bellezza: una bellezza così eccezionale, da riuscire quasi di scandaloso contrasto con tutti gli altri presenti”. È uno straniero per l’aspetto ma soprattutto per i modi, del tutto privi “di mediocrità, di riconoscibilità e di volgarità” che fanno di lui un individuo “socialmente misterioso”. Uno ad uno, a partire da Emilia e quindi Pietro, Lucia, Paolo e infine Odetta vengono sedotti dal “sesso sacro” e posseduti dall’ospite, che dopo un secondo telegramma portato da Angiolino annuncia: “Devo partire, domani”. La sua partenza, altrettanto misteriosa quanto il suo arrivo, segna la disgregazione della famiglia, demolita nelle sue fondamenta fatte di menzogne e ipocrisie piccolo borghesi. Trova un riscatto solo la serva Emilia, colei che per prima ha ricevuto il messaggio, perché estranea al mondo borghese da figlia del mondo contadino: Emilia diventa una santa di periferia, una “terribile accusa vivente contro la borghesia che ha ridotto (nel migliore dei casi) la religione a un codice di comportamento”, per usare le parole di Pasolini.

Ad oltre trent’anni dalla sua “parabola in musica” presentata al Maggio Musicale Fiorentino nel 1992, Giorgio Battistelli torna sullo stesso soggetto per la sua creazione più recente, Il teorema di Pasolini, tenuta a battesimo con grande successo alla Deutsche Oper di Berlino. Non si tratta di un rifacimento ma di un’opera del tutto nuova, che già dal titolo – non più Teorema ma Il teorema di Pasolini – sembra prendere le distanze non solo da quel lavoro ma anche di più dal soggetto e dal suo autore, oggettivizzando quel materiale che comunque continua a essere l’ossatura drammaturgica di questo nuovo “Teatro di musica” del compositore, anche in questo caso autore del libretto. Eliminate le parti più politiche ma anche datate della riflessione pasoliniana, sopravvive la sostanza della riflessione filosofica sulla natura dei legami fra esseri umani che proietta la “forma famiglia” su un piano più universale. Se nel vecchio Teorema i cantanti non cantavano per sottolineare l’incapacità di ascolto e soprattutto di esprimersi dei protagonisti, nel Teorema di Pasolini i personaggi hanno voce anche se, come nel romanzo pasoliniano (e in parte nel film), non per dialogare ma per tessere la trama narrativa attraverso l’intreccio di individualità monologanti in una sorta di aggiornato “recitar cantando”. Come nella sorgente monteverdiana del dramma in musica, la scrittura battistelliana integra numeri chiusi (l’aria dell’ospite sull’ermetico testo poetico Les sœurs de charité di Arthur Rimbaud, ma anche un duetto e un terzetto “di famiglia”) nel continuo “stream of consciousness” musicale. Ricco e complesso è il trattamento orchestrale, equilibrato e trasparente, che non prevarica mai sulla parola. Se nei lavori più recenti come Julius Caesar  e Le baruffe prevalevano i colori cupi e i violenti contrasti delle percussioni, in questo lavoro dominano piuttosto le calde e avvolgenti sonorità degli archi, trattati comunque con una sottile tensione lirica di sapore berghiano, perturbate dalle sottolineature delle percussioni nei momenti di climax e accompagnate da avvolgenti scie sonore degli inserti elettronici, quasi ad esprimere un’inquietudine nella lingua di suoni di indefinibile immaterialità.

All’alto esercizio di drammaturgia musicale di Giorgio Battistelli, dà brillante forma scenica l’irlandese Dead Centre, al secolo Bush Moukarzel e Ben Kidd, al debutto assoluto in un teatro lirico. L’idea del teorema pasoliniano viene efficacemente coniugata sul piano teatrale come esperimento di laboratorio. L’inesorabile successione delle scene di seduzione della prima parte è presentata come le diverse fasi di un trattamento sperimentale (la seduzione, appunto) somministrato ai protagonisti da un catalizzatore (l’ospite). Lo sdoppiamento dei personaggi – tecnici di laboratorio e protagonisti – traduceva efficacemente la narrazione oggettiva e scientificamente distaccata del romanzo di Pasolini, nel quale la vicenda non è mai raccontata attraverso le parole dei suoi personaggi. L’accattivante dispositivo scenico di Nina Wetzel combina efficacemente la dimensione tecnologica delle riprese live (di Ashton Carlisle Green), proiettate sul sipario semitrasparente, e l’artificiosità dei piccoli palcoscenici, nei quali, come nelle celle di un laboratorio, il pubblico assiste alle diverse fasi dell’esperimento. Chiaramente diviso in due parti, all’ordinata e sistematica scansione in scene della prima parte, segue la dissoluzione di un ordine (familiare ma, soprattutto, tragicamente valoriale) mostrata attraverso la trasformazione dei tecnici del laboratorio nei rispettivi personaggi e, ancor più plasticamente, nello smantellamento progressivo dei sei ambienti/palcoscenici. Nel finale, è nell’enorme spazio vuoto del palcoscenico della Deutsche Oper che avviene il simbolico denudamento del padre, immagine forte di una totale perdita di identità.

Impeccabile il lavoro sulla complessa macchina scenica così come su quella musicale non meno complessa. Merito dell’affiatato e preparatissimo gruppo di interpreti vocali, in perfetta simbiosi con i loro doppi muti, che sono Davide Damiani e Christoph Schlemmer(Paolo), Ángeles Blancas Gulin e Paula D. Koch (Lucia), Andrei Danilov e Eric Naumann (Pietro) e Meechot Marrero e Nelida Martinez (Odetta), Monica Bacelli e Doris Gruner (Emilia), mentre Nikolay Borchev presta la voce baritonale, come un redivivo Don Giovanni, e il corpo, esibito senza pudori piccolo borghesi, alla misteriosa figura dell’ospite. Merito anche dell’attenta direzione musicale di Daniel Cohen, più convincente sul piano del colore orchestrale (e va elogiato anche l’eccellente lavoro di Benjamin Schultz alla regia del suono) che su quello della trazione drammatica, alla guida dell’Orchestra della Deutsche Oper in forma smagliante.

Pubblico folto e attento alla prima, accoglienza trionfale con quasi dieci minuti di applausi e ovazioni soprattutto per il team registico, per il direttore Cohen e per Battistelli.

 

 

 

 

 

 

 

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