Recensioni - Opera

Superba concertazione di Daniel Oren per Luisa Miller a Bologna. Non convincono regia e messa in scena

Ottima la parte musicale con direttore e cast in grande spolvero in uno spettacolo che, purtroppo, non va oltre la staticità di un concerto

Prosegue la stagione lirica al Teatro Comunale di Bologna con una nuova produzione di Luisa Miller di Giuseppe Verdi diretta da Daniel Oren e con la parte spettacolare, regia, scene, costumi e luci affidate a Mario Nanni, in arte marionanni.

In grande spolvero la parte musicale con un Daniel Oren giunto all’apice della sua esperienza nel repertorio del Verdi degli anni di galera. Splendida infatti la sua concertazione. Oren riesce ad ottenere dall’orchestra del Teatro Comunale di Bologna un suono nitido, stagliato, agogico, a tratti corrusco ma che sa ripiegarsi in pianissimi lirici e sognanti. Ogni strumento viene finemente cesellato, stagliato nel magma sonoro, come lo splendido clarinetto della sinfonia. Oren dirige con piglio da condottiero, non ha mai paura di far risuonare le atmosfere popolari verdiane, il vero sugo della musica del bussetano. Si riconosce tutto con chiarezza e amalgama nella concertazione di Oren: le reminiscenze melodiche belliniane, il cabalettismo alla Donizetti, le anticipazioni del Verdi futuro, la chiarezza dei ritmi di walzer che non suonano mai volgari, l’attenzione alla voce e alla resa teatrale dei cantanti in palcoscenico.

Ottimo il livello complessivo del cast, con punte di assoluta eccellenza nelle voci maschili. Trionfatore della serata il Rodolfo di Gregory Kunde, che dopo anni di carriera, riesce a cesellare un “Quando le sere al placido” indimenticabile per accento, espressione, voce chiara, smagliante nel timbro adamantino, stellare negli acuti, piena e timbrata nei medi. Pubblico in visibilio per Kunde con numerose richieste di bis non accontentate, salvo poi regalare al pubblico acuti ancora più smaglianti con punte nel sovracuto nella successiva cabaletta “L’ara o l’avello apprestami”.

Accanto a lui un Miller memorabile impersonato dal baritono milanese Franco Vassallo. Anch’egli all’apice della carriera sfoggia una voce di assoluta qualità, sempre sorretta e imperniata su fiati lunghi e controllati a cui si aggiungono acuti smaglianti, di impressionante facilità, in un’omogeneità dei registri da manuale. L’aria di sortita “Sacra è la scelta di un consorte” è una lezione di canto, salutata da grandi applausi che diventano ovazioni dopo la cabaletta “Ah! Fu giusto il mio sospetto”. Nel finale il duetto con Luisa “Andrem raminghi e poveri” viene risolto mirabilmente con un perfetto canto sul fiato e una sorvegliata gestione delle mezze voci.

Luisa era il soprano greco Myrtò Papatanasiu, che ben si difende accanto a tali colleghi, grazie ad una buona linea di canto, con forse qualche asprezza di troppo e un registro di passaggio non sempre pienamente a fuoco. Una buona prova per lei nel complesso, con un ottimo ultimo atto in cui prevale la parte lirica del personaggio. Il giovane basso croato Marko Mimica impersonava ottimamente Walter, sfoggiando una voce timbrata, sonora e proiettata. Particolarmente felice la prima aria di sortita “Di dolcezze l’affetto paterno”, ben accolta dal pubblico; nel prosieguo avremmo preferito maggior attenzione al fraseggio e all’accento della parola scenica verdiana.

Completavano ottimamente il cast la voce scura ed espressiva di Martina Belli (Federica) e il corretto Wurm di Gabriele Sagona. Ben preparato e puntuale il coro del Teatro Comunale di Bologna.

Non altrettanto convincente purtroppo la parte spettacolare affidata in toto a marionanni, che gioca l’intera messa in scena su estetizzanti realizzazioni luminose e proiezioni video. Ne sortisce una scena sostanzialmente scarna, simbolica, con pochi elementi e un’attenzione maniacale alla parte illuministica, con effetti piacevoli e sciabolate luminose millimetriche su cantanti giocoforza inchiodati dalle infilate dei sagomatori. E poi ombre e riflessi in un palcoscenico sempre separato in due metà fra luce fredda e calda.

A questa concezione accurata e estetizzante avrebbe giovato forse un vero apporto registico. Data per acquisita la bellezza delle idee illuministiche, che inevitabilmente non possono reggere oltre due ore di spettacolo, non resta che una staticità imbarazzante dei cantanti, entrate ed uscite convenzionali, la fissità di un canto immobile a proscenio. Se a questo aggiungiamo una scelta di costumi senza alcuna coerenza né estetica né drammaturgica, alcuni veramente sciatti come il contadino in sandali e gilet, otteniamo niente più che un concerto ben illuminato.

Peccato, perché la parte musicale e interpretativa di Daniel Oren e della compagnia di canto avrebbero meritato una messa in scena più completa e non focalizzata solo sull’elemento luministico.

Grandi applausi nel finale per tutti gli interpreti.

Raffaello Malesci (3 Giugno 2022)