Recensioni - Opera

Parma: La Favorita in un teatro anatomico

Asettica e statica messa in scena dell’opera di Gaetano Donizetti.

Arriva a Parma dopo il debutto a Piacenza, “La Favorita”, dramma serio di Gaetano Donizetti, coprodotto dal Teatro Municipale di Piacenza e dal Teatro Regio di Parma.

Il regista Andrea Cigni sceglie di ambientare la storia del novizio Fernando, innamorato di Leonora, favorita del Re di Castiglia Alfonso XI, in un asettico teatro anatomico, dove i personaggi dovrebbero essere vestiti oppure spogliati del proprio ruolo, in questo caso simboleggiato dal costume, e analizzati sotto gli occhi del coro nel loro agire da personaggi oppure nei loro più veri e intimi sentimenti.

Viene chiarito fin dall’inizio che l’idea verte intorno alla simbologia costume/ruolo e non costume/verità, infatti a proscenio troviamo tutti i costumi bellamente esposti dentro teche in plexiglas su cui è scritto il nome del personaggio. Questi entrano distesi su di un tavolo anatomico mobile, vestiti solo di una specie di tuta bianca, con ai piedi scarpe da ginnastica. Ognuno poi viene vestito del proprio ruolo con un ridondante e spesso imponente costume colorato, prelevato nella teca dagli addetti al salone anatomico, anch’essi ovviamente in tuta bianca e guanti neri. I singolari costumi sono di Tommaso Lagattolla. Si tratta dunque di una analisi simbolica del “cadavere emotivo” del personaggio.

Spetta poi al coro, i medici legali dell’anima, oppure ai figuranti in assenza del coro, di continuare l’analisi dei personaggi durante l’azione. Coro e figuranti, dalle gradinate del teatro anatomico, assistono alternativamente alla “dissezione” – che in realtà è l’azione dell’opera - e ne ricavano impressioni e insegnamenti.

La scena, a cura di Dario Gessati, presenta perciò un grande teatro anatomico, fatto di diverse gradinate, che, ruotando, creano varie combinazioni di ambienti asettici, metallici e lineari. Sulle gradinate è posizionato, sempre immobile, il coro, che assiste all’azione, alla vestizione e svestizione dei personaggi e ne commenta i fatti, mostrando al pubblico dei cartelli con sopra annotate una serie di parole che, probabilmente, rimandano alle impressioni degli anatomopatologi o magari ai veri sentimenti dei personaggi durante l’azione. Dunque durante recitativi, ariosi e cabalette il coro mostra cartelli con scritte tipo: “Arde”; “Illusione”; “Onore”; “Amore”. Quando il coro non è presente questi cartelli vengono mostrati dai figuranti.

L’utilizzo dei cartelli risulta eccessivo e poco pregnante, distraendo continuamente il pubblico e impedendogli di immedesimarsi nella musica e nell’azione scenica. Lo stesso Brecht, a inizio novecento, era ben consapevole dell’effetto “distrazione” delle scritte in scena e le usava con l’intento dello straniamento per il suo teatro politico, in cui regista tedesco rifuggiva appunto dall’immedesimazione. Qui infatti il canto ne veniva disturbato, senza aggiungere nulla di più all’azione o alla drammaturgia musicale. Forse un uso più accorto e una dislocazione più incisiva del coro avrebbero in questo senso aiutato.

Per il resto nulla accade, se non frequenti variazioni della posizione delle gradinate, l’entrata di un improbabile videoproiettore su un tavolino a rotelle, atto a proiettare la carta della Morea, preda delle armate di Alfonso XI. Alla fine dell’opera i due protagonisti prevedibilmente si spogliano dell’abito fardello, e pertanto del proprio ruolo, per cantare liberi il finale di amore e morte in candida veste.

Sulla carta l’idea poteva azzeccata e dare una lettura innovativa ad una trama che sicuramente, soprattutto nella versione italiana che è una riduzione della prima versione francese, non brilla per coerenza e interesse. Purtroppo però abbiamo dovuto constatare come la realizzazione, abbastanza approssimativa, abbia in larga parte inficiato gli intenti innovativi e la complessiva riuscita dello spettacolo.

Infatti fare innovazione, e per estensione direi fare teatro musicale, significa anche avere una compagine, e parliamo del coro, dei mimi e dei cantanti, che possa supportare e rendere esplicito l’intento. Perciò se il costume è costrizione, quanto meno i cantanti, o alcuni di essi, avrebbero dovuto mostrare una qualche reazione quando lo ricevevano, cosa che non si è mai vista; i mimi che facevano indossare questi costumi avrebbero dovuto avere un ruolo drammaturgico, imporli per così dire, al contrario si sono limitati ad eseguire più che sciattamente un compito che probabilmente non avevano per nulla compreso. Lo stesso dicasi per l’atteggiamento, la convinzione e le movenze del coro, assolutamente lontane dall’intento che descrive il regista nelle sue note. Del resto anche i cantanti non si sono dimostrati scenicamente all’altezza, limitandosi a cantare con movenze stereotipate, per lo più fermi, mostrando di non aver fatto proprio quanto si cercava di comunicare con la messa in scena.

Qui la riflessione si fa più ampia e investe il sistema produttivo italiano che, o per mancanza di maestranze o per i tempi ristretti a cui è sottoposto, non riesce a supportare la giusta e sacrosanta aspirazione dei registi ad una sperimentazione scenica innovativa, ad una rilettura dei classici operistici con uno spirito veramente contemporaneo e in linea con quanto si fa in Europa. Per fare questo servono buone idee certamente, ma anche apparati produttivi costanti e rodati, mimi e figuranti all’altezza, masse corali addestrate anche alla recitazione, all’espressività scenica, e non solo a cantare immobili come in un oratorio sacro. E infine anche cantanti duttili che riescano ad interpretare una drammaturgia.

Detto questo, abbiamo ricavato l’impressione che l’dea di Andrea Cigni avrebbe potuto portare ad uno spettacolo interessante e innovativo, lo è stato solo in parte per i detti motivi.

Discreta in generale la compagnia di canto, anche se inevitabilmente risentiva della generale staticità dell’operazione e della scarsa aderenza scenica di tutti gli interpreti.

I migliori della serata l’Alfonso XI di Simone Piazzola, che canta bene e con attenzione, affiancato da un efficace e timbrato Simon Lim nel ruolo di Baldassarre. Corretto ma troppo sorvegliato il Fernando di Celso Albelo, così come la Leonora di Anna Maria Chiuri. Completavano il cast Andrea Galli e Renata Campanella. L’attenta direzione di Andrea Beltrami teneva insieme una serata che non è mai veramente decollata.

Il pubblico di Parma è rimasto abbastanza freddo durante tutta la rappresentazione, nel finale ha regalato agli interpreti convinti applausi di cortesia.

Raffaello Malesci (25 Febbraio 2022)