“Rigoletto” al Maggio Musicale Fiorentino

Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica 2021/22
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova PIERO PRETTI
Rigoletto AMARTÜVSHIN ENKHBAT
Gilda MARIANGELA SICILIA
Sparafucile ALESSIO CACCIAMANI
Maddalena CATERINA PIVA
Giovanna VALENTINA CORÒ
Il conte di Monterone ROMAN LYULKIN
Il cavaliere Marullo FRANCESCO SAMUELE VENUTI
Matteo Borsa ANTONIO GARÉS
Il conte di Ceprano DAVIDE PIVA
La contessa di Ceprano MARILENA RUTA
Un usciere AMIN AHANGARAN
Un paggio CATERINA MELDOLESI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D-wok
Nuovo allestimento
Recita dedicata al soprano Edita Gruberová
Firenze, 19 ottobre 2021
Quarto titolo della stagione, “Rigoletto” è anche la prima opera a tornare in scena con un teatro a piena capienza, dopo l’esordio a porte chiuse del 23 febbraio scorso. Tra gli allestimenti affidati alla regia di Livermore arriva, dunque, seconda, in attesa che il cerchio si chiuda con “Il trovatore” della prossima stagione lirica. Eppure l’impianto registico di questa ripresa della trilogia popolare inizia già a delinearsi, giacché questo “Rigoletto” si colloca per certi aspetti in una zona di transizione, recuperando da “La traviata” la concezione di una vicenda già accaduta fin dalle note del preludio e da “Il trovatore” il classico clima di fosca sospensione. Difatti, Davide Livermore ammanta di tinte funeste la rievocazione di una narrazione che trova la sua genesi in una maledizione fulminea, sovrannaturalizzata dalle suggestioni illuminotecniche di Antonio Castro e dalle proiezioni a cura di D-wok. Il ruolo del protagonista, attivo spettatore di un dramma che si consuma per le sue stesse scelte, è rispettato, così come la restituzione delle sottili trame interpersonali, seppure i vari avvenimenti siano spostati di contesto. In questa visione, la scenografia di Giò Forma, con la complicità dei costumi di Gianluca Falaschi, alterna scene orgiastiche dal sapore più tradizionale, a quadri intimi inediti, che inducono il pubblico ad approfondire il significato sotteso a ciò che si vede. Ne è un esempio la trasfigurazione dell’ambiente casalingo di Gilda in una sorta di scantinato pieno di lavori domestici da svolgere, che lascia intravedere il mondo esterno da un’opaca e inarrivabile vetrata, a indicare la condizione di perenne alienazione della ragazza, mentre meno ardita è la calzante idea di convertire la locanda di Sparafucile in un night metropolitano. Inevitabili, in un quadro del genere, alcune incongruenze col libretto, a onor del vero piuttosto paradossali al momento del rapimento di Gilda, tallone d’Achille dell’intero spettacolo. Le scelte registiche si specchiano poi nella direzione d’orchestra, che esordisce facendo quasi pensare a un’esecuzione rallentata del preludio e dei richiami al tema della maledizione, arguto artefatto a sottolineare l’originale proposito di Verdi d’intitolare l’opera “La maledizione”. Non manca qualche punto di maggiore interesse coloristico, come la singolare attenuazione orchestrale su tutto il quartetto del terzo atto, ma la bacchetta di Riccardo Frizza fa sicuramente dell’agogica il suo punto di forza, staccando ritmi spediti e inclini a cesellare sia la sortita del duca che la celebre canzone finale, ripristinando la raramente eseguita cadenza del duetto d’amore tra tenore e soprano. Tra le parti principali c’era grande attesa per la prova di Amartüvshin Enkhbat, previsto nel ruolo del titolo anche per il prossimo “Rigoletto” scaligero, ma il suo buffone stenta a prendere forma, sia per la propensione ad una costante stabilità scenica, che per le lacune di un approccio interpretativo ancora poco interiorizzato. Così, chi sedeva tra le file del pubblico alla ricerca di un fraseggio soppesato non poteva che constatare la mancanza delle caleidoscopiche interpretazioni di Leo Nucci, originariamente previsto nel cast. È un peccato, perché alcune intenzioni drammatiche ci sarebbero anche, ma non sempre lo scuro baritono riesce a filtrarle efficacemente attraverso i mezzi vocali. In questo, il cantante mongolo è poco agevolato da un una dizione spesso approssimativa, che amplifica la frequente fumosità delle frasi di centro. Passando per qualche maggiore affinamento dinamico sulle inserzioni solistiche, ad Enkhbat non rimane che concentrarsi sullo slancio degli acuti, proiettati con penetrante luminosità anche quando emessi a piena voce. Sprezzante dei rischi della maledizione, Piero Pretti gestisce con destrezza la ballata del primo atto, sebbene tratteggi un duca scenicamente più fiacco del consueto, che si riscatta con l’esuberanza di sfoghi acuti perlopiù nitidi e nella sicura risoluzione delle temibili frasi che insistono sul passaggio al registro di testa. Lo squillo timbrico sembra però sfumare man mano che la tessitura scende, adagiandosi su centri dall’emissione meno compatta. Ne è riprova l’aria del secondo atto, in cui il saldo sostegno delle puntature della cabaletta contrasta un cantabile meno omogeneo, non privo d’incertezze nella collocazione delle prese di fiato. Ambivalente anche l’esecuzione di Mariangela Sicilia, che plasma una Gilda in evoluzione, scolpita da una certa sensibilità nella ricerca cromatica e nella resa di smorzamenti e filati. Disinvolta sia sui cantabili che quando i ritmi si fanni più rapidi (precisissima l’aderenza con la direzione d‘orchestra sul quartetto finale), il timbro smaltato e la rotondità della linea di canto durante il racconto del secondo atto rivelano un colore più da soprano lirico che leggero, ancora poco atto ad affrontare agilità in staccato e che sembra meno a suo agio sugli acuti. Si approda, così, a una chiusura d’aria abbastanza anonima, mentre sarebbe stato più prudente omettere l’abituale puntatura al mib. Faceva da sfondo una folta cornice di parti secondarie, capeggiata dagli apporti delle tre donne: Valentina Corò, una Giovanna che col suo timbro fondo anticipa i timori di un triste destino, Caterina Piva, Maddalena più protagonista negli accorati accenti con Rigoletto che nei contributi alle parti d’insieme e Caterina Meldolesi, ostinato paggio della duchessa. A dispetto della regia, la maledizione di Monterone viene invece un po’ stemperata dal timbro leggero del basso Roman Lyulkin, a cui si affianca uno Sparafucile (Alessio Cacciamani) a tratti un po’ generico, ma con note gravi sempre a fuoco. Coadiuvavano i giochi di corte il determinato Marullo di Francesco Samuele Venuti e i partecipativi interventi di Antonio Garés (Matteo Borsa), Davide Piva (Conte di Ceprano), Marilena Ruta (Contessa di Ceprano), Amin Ahangaran (uscere). Concitato, ma non memorabile, l’applauso del pubblico del Maggio Musicale Fiorentino, che si unisce al teatro nel ricordo del grande soprano slovacco Edita Gruberová. Foto Michele Monasta