Rappresentatione di Anima, et di Corpo

Emilio de’ Cavalieri, Rappresentatione di Anima, et di Corpo

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Vienna, Theater an der Wien, 25 settembre 2021

Carsen rende mirabilmente attuale un’opera di 420 anni fa

Coraggiosa apertura di stagione quella del Theater an der Wien: va in scena la Rappresentatione di Anima, et di Corpo «posta in musica dal Sig. Emilio del Caualliere, per recitar cantando […] in Roma l’Anno del Giubileo MDC».

Siamo nel pieno della Controriforma in Italia, dunque, quando in reazione al protestantesimo segue la rivalutazione, ampiamente propagandata, dei principi fondamentali del cattolicesimo. Il Cavalieri sceglie una forma utilizzata fin dal medioevo, quella dell’oratorio, ma lo rappresenta con musica e costumi in una chiesa, Santa Maria in Vallicella, nel febbraio 1600. Si discute molto se questo si possa considerare il primo melodramma: pochi mesi dopo, il 6 ottobre, Jacopo Peri avrebbe presentato a Palazzo Pitti la sua “favola drammatica” Euridice, primo esempio di testo e musica che si uniscono per un dramma su una storia secolare, mentre due anni prima, sempre a Firenze, questa volta a Palazzo Tornabuoni, lo stesso Peri aveva fatto eseguire da un ridotto ensemble da camera la sua Dafne, testo declamato con accompagnamento musicale. Nel febbraio 1607 poi, a Mantova, il Duca assisterà al primo capolavoro del melodramma, L’Orfeo di Claudio Monteverdi, e da allora l’opera in musica avrà un posto assicurato come nuova forma espressiva d’arte.

Ma come si può rappresentare oggi un lavoro di 420 anni fa? «Guardando il pezzo come se fosse stato scritto oggi» risponde Robert Carsen, che ne cura la messa in scena. Il regista è reduce dalla recente produzione salisburghese de II trionfo del Tempo e del Disinganno di Händel, in cui viene trattato un tema simile 107 anni dopo. In quest’ultimo lavoro ci sono anche due figure identiche, Tempo e Piacere, e una citazione testuale dell’opera di Cavalieri. «Ho trovato queste connessioni incrociate molto eccitanti», continua Carsen nell’intervista rilasciata a Karin Bohnert. «Di che cosa parla questo pezzo? Ci interessa ancora al di là della particolarità di poter vedere rappresentato il primo esempio di teatro musicale dei tempi moderni? O si tratta di una performance piuttosto da museo e per gli appassionati di musica antica?». La risposta sta nel fatto che questo lavoro formula le eterne domande nella vita delle persone, che alla fine sono anche alla base di tutta l’arte. Vi si trattano temi esistenziali che sono diventati improvvisamente ancora più attuali: che cosa è importante nella vita, quali sono i valori essenziali? Soprattutto in un momento così difficile e devastante, con tanto dolore, difficoltà e isolamento come questo della pandemia. Il messaggio dell’opera è certamente molto radicale, basandosi sull’ammonizione della caducità della vita e sulla negazione dei bisogni del corpo e della vita per il piacere, la gioia e il successo, perché solo allora si riceverà una ricompensa in cielo. Ma per noi questo messaggio può essere compreso anche in un modo meno fanaticamente religioso? Soprattutto nel terzo atto, viene presentata un’idea molto formalizzata del paradiso e dell’inferno. Una ragione per rifiutare questa ideologia è che non si dovrebbe fare il bene perché si teme la punizione, il che significherebbe fare il bene per motivi egoistici, ma si vuole fare il bene perché è la cosa giusta da fare. Dopo 420 anni dalla paura e dalla minaccia di punizione, siamo arrivati a una decisione che esalta il nostro libero arbitrio.

Nell’opera di Agostino Manni, l’autore del testo, i personaggi non sono persone in sé, ma allegorie astratte, rappresentate però da esseri umani. Le uniche figure umane sono Anima e Corpo, e sono come una sola persona, perché siamo tutti composti così. Questo assomiglia, secondo Carsen, alla struttura di come si costruisce l’opera: «c’è il libretto, che è concreto e solido, e c’è la musica, che è emotiva, indescrivibile, astratta. Si riuniscono per formare un’opera, mentre Anima e Corpo si riuniscono per formare una persona, ma i due personaggi potrebbero anche essere due persone che si amano, perché quando due si amano, in un certo senso diventano anche una sola persona, si fondono. Così vedo Corpo e Anima più come una sorta di ogni-uomo e ogni-donna, e le altre figure allegoriche corrispondono a persone, circostanze di cui siamo circondati ogni giorno. Dobbiamo affrontare le tentazioni, questi sono gli scogli intorno ai quali dobbiamo navigare la nostra barca ogni giorno nella nostra breve vita».

La regia di Carsen fa il miracolo di fornire una drammaturgia convincente a un testo che ne è essenzialmente privo, con mezzi di intensa teatralità. Il prologo, in cui i “giovanetti” Avveduto e Prudenzio discutono della vita («questa miserabil vita altro non è che una pompa funebre di corpi vivi: un velocissimo corso alla morte: ed un nobile apparato, che si fa a’ vermi»), viene totalmente riscritto da Carsen e da Ian Burton in termini moderni e recitato in una allegra confusione babelica di lingue differenti da tutta la compagnia – solisti, coro, danzatori – sul palcoscenico vuoto e in abiti da viaggiatori, borse e trolley. Tutti  pronti a intraprendere quel viaggio che è la vita prima di venire ammoniti dal Tempo stesso: «Il tempo fugge, la vita si distrugge; e già mi par sentire l’ultima tromba, e dire: uscite da la fossa ceneri sparse ed ossa. […] faccia dunque ognun prova, mentre il tempo le giova, lasciar quant’è nel mondo, quantunque in sé giocondo; ed opri con la mano, opri col core, perché del ben oprar frutto è l’onore».

Nei costumi di Luis Carvalho i colori giocano un ruolo essenziale: dal rosso del Piacere all’oro della Vita Mondana, dal nero dei funerei vescovi Intelletto e Consiglio al bianco della “multitudine” che nel finale inneggia alla vita: «qua giù la terra ancora, mentre lieta il seno infiora, con il canto e con il riso corrisponda al paradiso».

Una piattaforma girevole e un fondale con una porta costituiscono la minimalistica scenografia disegnata da Carsen stesso e da Luis Carvalho. Sono le luci le vere protagoniste come sempre negli spettacoli di Carsen, ideate dallo stesso regista e dal fido Peter van Praet. Grande coup de théâtre l’ascesa al cielo delle anime beate che si trasformano subito dopo nelle anime dannate che precipitano nell’inferno, ma molti sono i momenti di grande emozione in uno spettacolo intensamente concepito ed estremamente curato.

In questa produzione viennese i sessanta minuti di musica originale vengono portati a quasi novanta con l’introduzione di musiche di Giovanni de Maque, di un anonimo e di Giovanni Gabrieli per il primo intermezzo tra primo e secondo atto, di Giovan Pietro del Buono e di Dario Castello per il secondo intermezzo. Sono suoni di compositori coevi molto diversi, spesso dalle ardite dissonanze. Giovanni Antonini alla guida de Il giardino armonico riesce a trasformare in un drammatico flusso musicale le fragili ed eleganti forme musicali di Cavalieri che accompagnano il recitativo declamato, quasi assente di fioriture, dei cantanti. Tedesco il soprano Anett Frisch (Anima) e austriaco il baritono Daniel Schmutzhard (Corpo) che danno voce alla Lei e al Lui in cerca di domande, soprattutto Lei, essendo Lui attratto da cose più terra-terra. Otre alle indubbie doti vocali, i due cantanti dimostrano buone doti attoriali, così come il Consiglio di Florian Boesch, baritono di esperienza e presenza scenica. La voce di Georg Nigl, nelle tre parti di Tempo, Mondo e Anima Dannata, ha grande proiezione e intensa caratterizzazione mentre l’haute-contre Cyril Auvity affronta e supera agevolmente la difficile tessitura di Intelletto, un ruolo da contralto. In un’opera come questa, dove le parole hanno importanza pari a quella della musica, una dizione perfetta è determinante e con interpreti italiani la si ottiene più agevolmente, come dimostrano il contralto Margherita Sala (Piacere) e il mezzosoprano Giuseppina Bridelli (Vita Mondana e Anima Beata), cantanti efficaci e sensibili. Fin da quando entra dal fondo della platea, l’Angelo Custode del controtenore Carlo Vistoli si impone per eleganza della linea musicale, volume sonoro e cura del fraseggio e il suo personaggio diventa da quel momento determinante nella vicenda. Vistoli sarà anche il più acclamato alla fine. Il coro Schoenberg si dimostra una volta di più un duttile strumento sia a livello vocale che attoriale e non si può non invidiare il teatro viennese che se lo è accaparrato. Bene anche i danzatori che hanno dinamizzato la scena mescolati al coro.

L’entusiasmo incontenibile del pubblico dimostra la sorpresa di venire per un pezzo da museo e scoprire invece di avere passato una serata di grande coinvolgimento estetico e poetico.