Bologna, Teatro Comunale: “La Bohème”

Bologna, Teatro Comunale, Stagione d’Opera 2021
“LA BOHÈME”
Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo Scenès de la vie de bohème di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo FRANCESCO CASTORO
Mimì BENEDETTA TORRE
Marcello ANDREA VINCENZO BONSIGNORE
Musetta VALENTINA MASTRANGELO
Colline FRANCESCO LEONE
Schaunard PAOLO INGRASCIOTTA
Benoît/ Alcindoro BRUNO LAZZARETTI
Parpignol UGO ROSATI
Un venditore ENRICO PICINNI LEOPARDI
Segente dei doganieri RAFFAELE COSTANTINI
Un doganiere SANDRO PUCCI
Orchestra, Coro e Coro delle Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Maestro del Coro delle Voci Bianche Alhambra Superchi
Regia Graham Vick
Scene e Costumi Richard Hudson
Luci Giuseppe Di Iorio
Produzione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 04 agosto 2021
Non è certo semplice scrivere la recensione per l’ultimo spettacolo di un regista recentemente scomparso: questa premessa non vuole essere una scusante, ma la spiegazione dell’oggettiva difficoltà nella quale naviga chi scrive, in special modo perché dello spettacolo visto non si può parlare esattamente in toni lusinghieri. “La bohème” di Graham Vick, vincitore (assai discutibile) del Premio Abbiati nel 2018, prende infatti una direzione del tutto opposta rispetto a “La bohème” di Puccini: tanto questa è poetica, sentimentale, anche quasi zuccherosa, e alla costante ricerca della bella melodia che si accattivi lo spettatore, così quella vickiana è prosaica, grottesca, sembra fatta apposta per infastidire chi la guarda (pensando magari di scandalizzare, come con la fellatio del terzo quadro, o la dose di eroina che Musetta scalda come “cordiale” mentre recita l’invocazione alla Madonna – due esempi, invece, di brutale diminutio dell’atmosfera che Giacosa, Illica e Puccini intendevano). Vick sembra volerci mettere davanti il peggio di quello che questi personaggi abbiano da offrire: gesti volgari, sciocchi riferimenti sessuali, spazzatura in scena, costumi raffazzonati. Certo, è chiaro che questo sia voluto, perfettamente confezionato da Richard Hudson e molto bene illuminato da Giuseppe Di Iorio, ma questo non significa che il pubblico debba apprezzarlo necessariamente: non abbiamo già abbastanza brutture per le nostre strade e nelle nostre vite, per volerle rivedere anche all’opera? In particolare in un’opera di Puccini, che vedeva i suoi personaggi del tutto avulsi dal suo contesto, “creature di sogno”, questa operazione di abbrutimento sembra fuori luogo. Non c’è nulla di “contemporaneo” in questa regia, in primo luogo perché certe attualizzazioni già le fecero (con esiti migliori) Peter Sellars e Ken Russell negli anni Ottanta, e in secondo luogo perché vogliamo credere che nel nostro presente ci sia anche della bellezza, nell’essere artisti, poeti o musicisti, non solo il vuoto che tutto risucchia, la miseria, il sesso facile e la droga. Perché questo è quello che si è visto a Bologna: un gruppo di giovani “perduti” che si confrontano con una giovane “pura” che rimane vittima di un gioco più grande di lei. Tutto molto interessante, ma non è “La Bohème”, né quella di Puccini e i suoi librettisti, né quella di Murger, autore del romanzo ispiratore dell’opera – e a poco serve menzionare i molti riferimenti colti con cui Vick silenziosamente infarcisce la sua regia, da Almodóvar a Osborne a Fassbinder. Fortunatamente il buon cast di cui la produzione ha disposto ha saputo salvare la serata: è ben cantato il Rodolfo di Francesco Castoro, che cura con coinvolgimento il fraseggio, regalandoci momenti di grande tenerezza e un registro acuto luminoso; anche Andrea Vincenzo Bonsignore, malgrado non sia parso in gran forma, ci offre un Marcello di bella vocalità e vario nel fraseggio. Vera scoperta di questa produzione è Francesco Leone (Colline), giovane basso dalla voce ampia e omogena in tutti i registri, che, oltre a prestarsi alle varie trovate sceniche, sa commuovere il pubblico con il trasporto col quale interpreta la “Vecchia zimarra”. Ben interpretato, e dal notevole mezzo vocale, anche lo Schaunard di Paolo Ingrasciotta; adatto ai suoi ruoli anche Bruno Lazzaretti (Benoît/Alcindoro), correttamente interpretati i ruoli di lato (il Parpignol di Ugo Rosati, il venditore di Enrico Picinni Leopardi e i doganieri di Raffaele Costantini e Sandro Pucci). Una Musetta certamente disinvolta scenicamente (anche un po’ troppo) e dalla bella vocalità è Valentina Mastrangelo, il cui timbro pieno e lirico si accosta a un bel fraseggiare. Apprezzabile pure Benedetta Torre (Mimì), anche se forse appare un po’ fragile in rapporto con l’orchestra. La direzione desta infatti qualche perplessità: Francesco Ivan Ciampa, infatti, dà una versione dell’opera estremamente energica, serrata, e dai volumi non sempre calibrati in rapporto alle voci. La coesione con la scena c’è, ma l’impressione è quella di una visione troppo sinfonica e poco operistica. Molto bene il coro, mentre le voci bianche si riconoscevano poco nel marasma generale del secondo atto. Una piccola nota di disappunto: il tambur maggiore non c’è, e la banda è tenuta in buca. Scelta forse un po’ troppo facile, considerato che non mancava lo spazio né in scena né in teatro – tuttavia il sospetto sul perché manchi c’è: in questa regia da bassifondi, in cui anche il “Momus” sembra più un autogrill che un raffinato caffè, una banda che passa non sarebbe coerente col contesto, e dunque viene eliminata. Ecco quello che si intendeva all’inizio per “Bohème vickiana” – ad maiora, Sir Graham. Foto Casaluci-Ranzi