FIRENZE. Uno spettacolo “da Festival” è quello che è difficile vedere altrove o per la rarità del titolo o per la qualità della proposta. Il ritorno di Ulisse in patria non è una rarità, benché delle tre opere superstiti di Monteverdi sia di gran lunga la meno rappresentata; e mai, a mia memoria, bene come nella produzione del Maggio musicale fiorentino che ha debuttato lunedì alla Pergola.

Il successo ha nome e cognome: Robert Carsen. In effetti, oggi i registi d’opera si dividono in due categorie: lui e gli altri. Non che al suo livello non ce ne siano (pochi, per la verità), ma nessuno è su piazza da quarant'anni: il teatro di Carsen è ormai un Grande Classico che però non è mai diventato manierismo, e questo è miracoloso. Qui poi c'è un Carsen davvero dei migliori. La scena di Radu Boruzesco riproduce sul palcoscenico la sala della Pergola, come se lo guardassimo in uno specchio. Gli dei, vestiti di ricchi velluti rossi come in un Pizzi qualsiasi (i costumi, fantastici come tutto il resto, sono di Luis Carvalho), occupano i palchi del teatro spettegolando e commentando le miserie terrene, salvo scendere quando decidono di contribuirvi (ma Minerva riporta a casa Telemaco volteggiando nell’aria da brava deessa ex machina). In platea si agitano gli umani, in abiti contemporanei, Ulisse in divisa, i Proci modaioli tipo frequentatori del Billionaire, Penelope signora triste ma sempre “bene”, Iro il parassita volgarissimo in completo a scacchi bianchi e rossi. 

Pochi elementi scenici bastano per creare immagini di sognante bellezza: il lettone dove Penelope piange il marito assente e che subito dopo ospita lo striptease della solita coppia monteverdiana di servitori in fregola, il tavolo su cui Ulisse dormiente viene portato in scena dai Feaci in mimetica in una processione ritmata che sembra un funerale militare, una pioggia di coriandoli verdi per fare l’Arcadia. Chi l’ha detto che le regie “moderne” non debbano essere anche belle da vedere? Ma poi l’ironia che serpeggia nel meraviglioso libretto di Badoaro, degno di quello di Busenello per L’incoronazione di Poppea (cosa doveva essere, quella Venezia del Seicento!), è onnipresente, restituita con pochi sapidi tocchi, mentre le frasi dell’Humana Fragilità, che nel Prologo moraleggiante soccombe al potere di Tempo, Fortuna e Amore, sono distribuite fra i vari personaggi, a loro volta sistemati nei palchi del teatro “vero”. Certo: i fragili umani siamo noi, quant’è vero, mai come in questo periodo ce ne siamo resi conto, anche se crediamo di essere Dei, che infatti occupano nel teatro “finto” i nostri stessi palchetti.

E tuttavia per fare un grande spettacolo l’idea non basta, esattamente come non basta per una grande esecuzione. Ci vuole anche la tecnica per realizzarla. E qui credo davvero che nessuno o quasi sia al livello di Carsen. La precisione millimetrica dei movimenti, l’esattezza minuziosa con la quale viene gestita la scena sono stupefacenti, e pazienza se saranno costate a chi ha dovuto realizzarle, se non lacrime e sangue, almeno infinite prove. Basta vedere come i figuranti spostano letti e tavoli, come se fosse un balletto, o la straordinaria resa al rallentatore della strage dei Proci, quand’è Minerva volteggiante sulle spalle dei suoi boys a infilzarli con le frecce di Ulisse. Spettacolo memorabile, divertente e commovente insieme, come sono Monteverdi e l’opera e la vita, che onora chi l’ha realizzato ma anche il Maggio che l’ha prodotto.

Ottavio Dantone dirige con vivacità, fantasia e libertà ritmica un’Accademia Bizantina impeccabile: sono quei Monteverdi in cui sembra che in buca ci siano più strumenti di quanti effettivamente sono. Il redivivo Charles Workman di Ulisse ha la voce, da baritenore, l’autorevolezza e anche l’aspetto da reduce stanco del suo infinito Vietnam mediterraneo. Delphine Galou è elegantissima in scena e nel canto, ma la sua voce non ha quella varietà di colori che servirebbe per il continuo lamento di Penelope. La lunghissima compagnia è comunque ottima fino all'ultimo procio, ma bisogna citare almeno Arianna Vendittelli, forse la migliore in campo, una Minerva perfetta, e la scommessa riuscita di John Daszak, tenorone che di solito canta tutt’altro repertorio ma che qui fa un Iro fantastico, indimenticabile: “Ecco un artista”, direbbe Tosca. Finisce con un trionfo di applausi ritmati e la consapevolezza di aver assistito qualcosa che resterà a lungo nel ricordo e, temo, poi diventerà rimpianto.

Brevemente, ma bisognerebbe scriverci un libro, non una recensione, il Verdi prima di Monteverdi, cioè il recital con orchestra di Anna Netrebko, diretto benissimo da Marco Armiliato, un maestro che dovrebbe occupare stabilmente qualche podio italiano invece che lavorare (moltissimo) sempre all’estero. In programma, le sinfonie di Nabucco, dell’Innominabile, dei Vespri e della Miller; per lei, la cavatina di Abigaille, il sonnambulismo del Macbetto, la prima romanza di Aida e la cavatina di Leonora del Trovatore. Nel suo repertorio, Netrebko è il maggior soprano vivente e il suo sempreVerdi, accolto da un tripudio raro in generale e a Firenze in particolare, è risultato memorabile per almeno tre ragioni. 

Prima: il canto. Attualmente questa voce, che è allo zenith della carriera, non ha paragoni possibili. E’ una colonna di suono che dal re bemolle acuto fino a profondità da mezzosoprano (carnose e piene ma mai poitrinées), sale e scende, si allarga e si restringe, smorza e rinforza senza la minima frattura e, si direbbe, il minimo sforzo. Ascoltarla nell’involo delle grandi frasi verdiane, quando dilaga per la sala saturandoti le orecchie, mi ha dato lo stesso effetto “fisico” di Pavarotti dei bei tempi, quello di una bomba sì, ma fatta di seta e di velluto. Come nel suo caso, il merito è delle doti naturali, certo, ma soprattutto di una consapevolezza tecnica ormai affinatissima. Volendo pignoleggiare, della signora sono da segnalare un paio di incertezze d’intonazione e un canto d'agilità (nella cabaletta di Leonora) inevitabilmente un po’ meccanico e non sempre precisissimo: quisquilie e pinzillacchere, avrebbe detto Totò.

Seconda: l’interpretazione. Netrebko non è solo una macchina da canto: è un’artista. Abigaille la cantava in pubblico per la prima volta, e si comprende sia una certa prudenza che un’espressività ancora da affinare. In Leonora ha messo un po’ il pilota automatico, ma bastava l’opulenza della voce a renderla comunque memorabile. Però “Ritorna vincitor!” era splendido, di una varietà di colori e di accenti infinita, e “Una macchia è qui tuttora” sensazionale, come se la cantassero Vanessa Redgrave o Judy Dench: puro Shakespeare e puro Verdi, da ascoltare con il fiato sospeso. E in effetti alla fine si è sentito un sospiro generale, come se l’avessimo trattenuto tutti. Poi nei tre bis si è divertita: uno era la cabaletta di Leonora, ma negli altri due ha fatto “O mio babbino caro”, e vabbé, nessuna Lauretta avrà mai un’opulenza vocale del genere, e un valzer di Musetta di una sensualità e di una malizia semplicemente inaudite.

Ma c’è ua terza ragione per cui Netrebko è Annuska nostra: la sua capacità di mettersi subito “in tasca” il pubblico. Si direbbe che non debba nemmeno cantare: basta vedere come entra, fasciata in un vestito con spacco assassino e décolleté in bella vista, il sorriso a ventiquattro carati. Consapevole del suo valore, lo proclama con il corpo, con la voce, con il sorriso, con gli abiti sberlucciacanti, come se dicesse a ognuno di noi: eccomi qui, sono bravissima, sono una diva, mi piace piacervi, adoratemi. Ed è felicità obbedire. 

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