SALISBURGO. Diamo i numeri, per cominciare. Nei quattro giorni scarsi di Festival, da venerdì sera a lunedì pomeriggio, gli spettatori, mascherati e tamponati (per entrare in sala occorreva l’ostensione dell’esame), sono stati 5.767, provenienti da venti Paesi. Sia pure con una capienza delle sale ridotta alla metà causa Covid, è stato venduto il 99,5% dei biglietti disponibili: in pratica, tutti. Accreditati anche 70 media di dodici nazioni. Quanto all’accoglienza, dopo la Tosca conclusiva ci sono stati venti minuti di applausi.

Insomma, quello di Pentecoste non è più il Festival minore di Salisburgo. Il merito spetta a un’artista indiscutibilmente grande che di nome fa Cecilia e di cognome Bartoli. Non è solo la direttrice artistica del Festival, quest’anno dedicato a Roma Aeterna, ma la sua primadonna, la protagonista, la mattatrice, in una parola: l’anima. Giudicate voi. Venerdì sera, Bartoli è stata Piacere nel Trionfo del Tempo e del Disinganno di Händel, oratorio proposto in forma scenica; sabato sera, Sesto nella Clemenza di Tito di Mozart, stavolta in versione concertante; domenica mattina, ha fatto il suo consueto operashow barocco (sette lunghe arie più tre bis a furor di popolo) e la sera ha cantato l’Händel; lunedì pomeriggio, il Pastorello in Tosca. Per una signora che ha 54 anni e gli ultimi 34 li ha passati in palcoscenico, un tour de force che diventa ancora più riuscito se si considera non solo l’impegno fisico, mentale ed emotivo, ma anche i risultati. Ne dò conto a capitoletti, così potete leggere solo quello che vi interessa di una recensione inevitabilmente lunghetta.

La clemenza di Tito. L’ultima opera di Mozart è stata spesso vista come l’ultima opera seria tout court, con il suo Metastasio riscaldato, il messaggio encomiastico verso la Maestà di turno (che peraltro ne aveva diritto: si festeggiava l’elezione a Re di Boemia di Leopoldo II d'Absburgo-Lorena, che come Granduca di Toscana era stato il primo sovrano al mondo ad abolire la pena di morte), le due grandi parti per castrato, la romanità di maniera. Una tendenza che si è rafforzato negli ultimi decenni di movida "filologica”, quando le esecuzioni “storicamente informate” con strumenti originali e così via hanno sottolineato questa filiazione che indubbiamente c’è. Insomma, di solito si fa Clemenza guardando indietro. Gianluca Capuano, diventato negli ultimi anni il direttore di fiducia della diva, direi con vantaggio reciproco e figuriamoci di noi ascoltatori, fa qui il contrario. Perché dirige sì i Musiciens du Prince, l’orchestra barocca monegasca di cui Bartoli è direttrice artistica (sì, anche), quindi le sonorità sono quelle scabre e ruvide, affilate e scattanti dei complessi “antichi”, più o meno agli antipodi del Mozart “viennese” leccato e levigato che non si porta proprio più. Ma guarda risolutamente avanti, leggendo il Tito come un ponte verso l’avvenire. Mi sembra una scelta non solo legittima ma giusta. Nel 1791, il giovane Werther dolorava già da diciassette anni e la Rivoluzione che avrebbe cambiato tutto era iniziata da due. L’era dell’Empfindsamkeit stava diventando quella del Romantik. Non sappiamo per ovvie ragioni che direzione avrebbe preso il teatro di Mozart. Ma sotto la compostezza marmorea di questa Roma incipriata ribollono già delle sensibilità morbose e dei furori protoromantici, nella grandeur tragica si avvertono delle fratture non più componibili negli eleganti bassorilievi metastasiani. Da Idomeneo alla Clemenza, Mozart non poteva che essere dentro il suo tempo e anzi in anticipo sui tempi, come del resto sempre fu. Forse è questo il significato di quel “ridotta a vera opera” che scrisse accanto al titolo nel suo catalogo, dopo che Caterino Mazzolà gli aveva accomodato il vecchio Metastasio per introdurvi quei pezzi d’assieme che erano la conquista irrinunciabile delle “commedie” dapontiane. Capuano è un intellettuale raffinato, e magari queste cose le ha considerate. Però l’importante è che sia anche un grande musicista, e di certo queste cose riesce pure a comunicarle. Ne nasce La clemenza di Tito forse più originale e meditata che si sia sentita negli ultimi anni, e peccato solo che la necessità di eliminare l’intervallo abbia obbligato a tagli dolorosi nei recitativi (niente “terribile Vesevo”, per dire, e nemmeno la gran scena del confronto fra Tito e Sesto che Voltaire giudicava, giustamente, una delle vette del teatro del suo tempo, e forse non solo del suo). 

Naturalmente Bartoli ha capito tutto e ripensa radicalmente il Sesto che aveva inciso un quarto di secolo fa con Hogwood. Non si tratta di fare di necessità virtù, perché il virtuosismo è intatto, benché meno esibito ed esibizionista. Di nuovo c’è lo scavo psicologico del personaggio, questo Amleto vittima di un fato più grande di lui, che si traduce in recitativi curati fin nelle resa della punteggiatura e, nel canto, in attimi di sbalordimento trasognato e sbigottito, resi con un filo di voce ma sempre “sul fiato” quindi sempre intellegibile: memorabile. Per il resto, Charles Workman è un Tito di gran rilievo e anche ben cantato, benché sembri sempre avere una patata in bocca; Mélissa Petit e Peter Kálmán sono rispettivamente efficaci come Servilia  Publio e Lea Desandre è un Annio più ancora che bravo: delizioso. Il problema è che per fare La clemenza di Tito Vitellia, ahimè, ci vuole proprio. Ad Anna Prohaska mancano, a voler essere ottimisti, un paio di note sopra e altrettante sotto: ne risulta un canto tutto trucchi, che un fraseggio perennemente esagerato ed esagitato non riesce a mascherare. 

Il trionfo del Tempo e del Disinganno. È un oratorio del giovane Händel, in trasferta romana prima dei trionfi londinesi, cui il cardinale Benedetto Pamfili apparecchia un libretto superbarocco e ipermoralista, dove il Tempo e il Disinganno lottano con il Piacere per conquistare l’anima di una Bellezza che prima si dà alla pazza gioia e poi si pente da brava Maddalena. Come sempre in questi testi edificanti, l’inconveniente è che i sollazzi profani risultano più attraenti del cilicio redentore, e magari ne era consapevole anche Sua Eminenza. Oratorio, quindi. Però il caro Sassone aveva già quella prorompente vena teatrale che ne avrebbe fatto il più grande operista della sua epoca, sicché ultimamente l’oratorio diventa spesso un’opera. La stessa Bartoli l’aveva già cantato in forma scenica a Zurigo.

Lo spettacolo di Robert Carsen dimostra l'inanità demente di quella estenuante querelle des anciens et des modernes che è lo sgangherato dibattito italiano sulle regie “moderne”. Carsen cambia nulla della drammaturgia del testo, anzi ne accoglie perfino la compunzione ipocrita di cui magari ci si potrebbe fare beffe; ma, semplicemente, dà allo spettatore dei riferimenti spazio-temporali che gli permettono di coglierla appieno. Così la Bellezza diventa una di quelle infelici che vincono un talent show dei più trucidi i cui giudici sono appunto Piacere, Tempo e Disiganno. Subito si monta la testa e subito la perde nelle tre esse, successo, sesso e soldi (e sciampàgn, averebbe sfottuto la Cederna ai bei tempi del boom) ma, dopo le omelie del Tempo che sembra un telepredicatore e le sedute sul lettino del Disinganno, trova sé stessa e torna sulla retta via, invece di scappare alle Maldive con il bottino e un paio di toyboy. La prima parte dello spettacolo è coloratissima e animatissima; la seconda, sempre più vuota e buia, fino al finale folgorante in cui Bellezza esce dal fondo del palcoscenico nudo, svelando l’illusione teatrale: tipico disinganno carseniano. Se l’idea è buona, il virtuosismo nella realizzazione è eccezionale, e del resto non si è il maggior regista d’opera del mondo per niente.

Dirige ancora Capuano e ancora molto bene, con un raffinato lavoro sui colori orchestrali (sono lontani i tempi in cui le orchestre barocche ne avevano solo due, il bianco e il nero). SuperCecilia è il Piacere in tailleur pantalone rosso e capello corto, un incrocio fra Mara Maionchi e Maria De Filippi, e ovviamente si mangia la scena e la serata quando canta “Lascia la spina”, che poi diventerà la più barocca delle hit come “Lascia ch’io pianga” del Rinaldo. Torna anche Workman come Tempo e il Disinganno è Lawrence Zazzo, forse meno brillante che un tempo ma sempre autorevole. La Bellezza, la vera protagonista, è il giovin soprano Mélissa Petit. A parte qualche slittamento d’intonazione, canta bene e fa tutto quel che deve fare. Però non dà al personaggio quel supplemento di carisma “suo” che forse ci si poteva attendere. Bellissimo spettacolo. 

What passion cannot music raise. È il titolo, tratto dall’händeliana Ode for St. Cecilia’s Day (tutto un programma), del concerto spettacolo che Bartoli ha già portato in mezzo mondo, compresa recentemente Firenze. Una sorta di Bignami dell’opera barocca, dove lei canta arie di Porpora, Händel e Vivaldi (ma c’è anche un concerto di tromba di Telemann), sfida i solisti dell’orchestra in cadenze vertiginose, si traveste da Farinelli e da Cleopatra, danza il balletto di Ariodante, insomma fa la Bartoli mentre la gente accoglie l’ultimo trillo con un boato da stadio. Che dire? Prendere o lasciare. Personalmente, prenderei da qui al Tremila. Capuano è sempre irreprensibile e il Prince può essere fiero dei suoi Musiciens, un gruppo di autentici virtuosi. 

Cain, overo Il primo omicidio. Alessandro Scarlatti è un Dio della musica, come ripete il suo profeta, Luca Della Libera. Questo oratorio su Caino del 1707, libretto di Antonio Ottoboni, è un capolavoro vero, specie nella bellezza incantata e ipnotica delle sue arie patetiche. Che si possa ottenere tanto con così poco, appena archi e basso continuo, è un miracolo. Stavolta l’oratorio è restato un oratorio e l’ha diretto assai bene Philippe Jaroussky, celebre controtenore che alterna il canto al podio del suo Ensemble Artaserse. Brillano appunto i controtenori: Bruno de Sá, che peraltro mi sembra più un sopranista “naturale”, per il timbro angelico, a parte qualche suono stridulo salendo, del suo Abele; Filippo MIneccia per la grinta corrusca e coinvolgente del suo Caino. Kresimir Spicer e Inga Kalna sono più ordinari come Adamo ed Eva. Da tenere d’occhio i giovani Paul-Antoine Bénos-Djian e Yannis François, nelle impegnative parti delle voci, rispettivamente, di Dio e di Lucifero (controtenore e basso, per la cronaca).

Tosca. Ammettiamolo: dopo tre giorni di cembali e tiorbe e arie con il daccapo (ormai erano diventate tripartite anche le ordinazioni in trattoria) si aveva voglia di Puccini, e si sa che un Festival musicale dedicato a Roma senza Tosca è impensabile. Non immaginavo però che questa Tosca in concerto esportata dal Maggio musicale fiorentino risultasse così insolentemente bella: forse la più bella che abbia sentito in vita mia (e di Tosche giuro che ne ho sentite molte, anzi prima di questa avrei detto troppe). 

Il merito è di Zubin Mehta che qui ricorda l’ultimo Abbado. Dà la stessa impressione di dirigere non per il pubblico o per dimostrare una tesi interpretativa o perché, alla fine, è il suo mestiere. No: dirige per sé stesso, per il piacere di fare una musica che gli piace e soprattutto cui piace lui. Infatti Tosca è sempre stata una delle “sue” opere, come Il ratto dal serraglio o Salome. L’ottantacinquenne maestro scale faticosamente il podio, dirige con piccoli gesti quasi impercettibili (però bisognava sentire con che prontezza ha rimediato a un lieve scollamento delle voci nel duetto del primo atto) e fa una Tosca semplicemente memorabile. Non saprei nemmeno dire che Tosca sia: l’impressione è che sia l’unica possibile. Tutto è così naturale, spontaneo, sorgivo, “giusto” che si resta soggiogati. Mehta non dirige la partitura: l’accarezza. Magnifici, non trovo altro aggettivo, i complessi del Maggio: fiutata la grande occasione, l’Orchestra si è fatta acclamare, ma proprio con urla da stadio, in una sala dove lo standard sono i Wiener e i Berliner. E poi era una gioia vedere i cantanti recitare, sì, recitare, anche se in abito da sera, tutto intorno al podio del patriarca, che li guardava con la stessa olimpica e divertita serenità di chi è andato oltre le convenienze e inconvenienze teatrali, e fa musica per la gioia di farla. 

Che cantanti, però. Inizio perversamente dai comprimari, perché sono tutti uno più bravo dell’altro, Alessandro Spina, Adolfo Corrado, Francesco Pittari come Spoletta, Giulio Mastrototaro che è un lusso perfino eccessivo come Sciarrone e Alfonso Antoniozzi che semplicemente si mangia qualsiasi altro Sagrestano, e senza nemmeno aver bisogno di aprire bocca: basta vedere come cammina, e il personaggio è già lì (ah, e ovviamente senza cachinni e caccole). Il supercameo è naturalmente quello di Santa Cecilia, che arriva al terzo atto a piedi nudi e in Lederhosen cantando da par sua lo stornello del Pastore: Heidi a Trastevere, e poi dite che questa donna non è un genio...

Poi ci sono loro tre, quelli del triangolo sadico-amoroso. Luca Salsi ha la voce dei baritoni “di una volta” e l’intelligenza degli artisti di oggi: domina tranquillamente il “Te Deum" ma canta sempre morbido e sfumato, elegante e inquietante perché Scarpia non è un vilain da opera da coltello ma molto di più (o di peggio, avrebbe detto il cardinale Pamfili). Jonas Kaufmann è in ottima forma. La voce è un po’ rinsecchita e se risponde bene sugli acuti presi di slancio (benissimo “Vittoria, vittoria!”) fatica di più se deve raggiungerli legando. Ma, carisma e interpretazione a parte (pochi sanno fare l’italiano gaglioffo come questo bavarese) è memorabile quando attacca e canta tutto “Qual occhio al mondo” in pianissimo, una prodezza che vale la serata. Infine lei, anzi Lei. Dimagrita, elegantissima, diva con un punta di ironia che le impedisce di diventare antipatica, Anna Netrebko è oggi una Tosca senza paragoni e con non molti nemmeno fra le interpreti storiche. Si sente una colonna di suono che sale e scende, smorza e allarga senza la minima frattura e la minima fatica, inondando la sala enorme del Grosses Festspielhaus con un fiume di bellezza. Cantato così, per una volta “Vissi d’arte” non è lì più perché la primadonna deve avere una romanza, ma diventa misteriosamente plausibile anche dal punto di vista drammaturgico. Pubblico impazzito. Per forza: un orgasmo musicale lungo due ore. 

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