BOLOGNA. Con i teatri chiusi al pubblico, per proporre l’opera in streaming o in tivù sono possibili due modi che sono poi due veri e propri mondi, e assai diversi. Il primo è fare teatro “come se” fossero recite normali, anche se poi non lo sono quasi mai perché l’orchestra non è in buca, perché sul palco i cantanti devono stare distanziati e così via. I risultati sono talvolta eccellenti, vedi l’ultima Salome della Scala, più spesso interlocutori, perché inevitabilmente qualcosa si perde. L’altra strada, più innovativa e più rischiosa, è quella di trasformare le limitazioni in opportunità e di rinunciare all’illusione del teatro in teatro per puntare a un prodotto ibrido, registrato e montato, pensato fin dall'inizio per il video: un film-opera, insomma.

A questa categoria appartiene l’Adriana Lecouvreur di Cilea del teatro Comunale di Bologna, proposta ieri sera da RaiCultura su Rai5. Il titolo è notoriamente pericoloso per quel tanto di liberty un po’ polveroso e decadente che si porta dietro, enfatizzato da interpretazioni divistiche costantemente sopra le righe e talvolta sotto il ridicolo che un tempo forse avevano ragione di essere, oggi certamente no. La regista Rosetta Cucchi scansa il rischio ambientando ogni atto in un’epoca diversa, soluzione non nuovissima ma intrigante. Il primo atto si svolge in quella prevista dal libretto, il 1730, il secondo viene trasferito al 1860, il terzo al 1930 e il quarto al 1968. Quattro diverse declinazioni del divismo, insomma: si parte dall'Adriana “autentica”, l’attrice che rivoluzionò il modo di recitare della Comédie-française per accogliere le istanze di naturalezza e verosimiglianza dell’Illuminismo e si finisce a Catherine Deneuve che defunge in un nulla molto esistenzialista. Per il resto, Cucchi si affida alla bravura scenica delle sue due primedonne Kristīne Opolais e Veronica Simeoni, che non sono solo brave e belle, ma hanno anche quel genere di viso di cui le telecamere si innamorano. C'è naturalmente il gioco del teatro nel teatro, perché tutto si svolge dentro il Comunale, anche con trovate divertenti come il confronto in un due palchetti confinanti. E, se il primo atto è un po’ irrisolto, poi lo spettacolo cresce e c'è un'idea bellissima per il quarto (idea che in una recita “vera” sarebbe irrealizzabile, o almeno non realizzabile così), dove Maurizio in realtà non c'è, è solo un’illusione, una voce da fuori, un delirio di Adriana morente, che in realtà nel suo vaneggiare prende per lui il suo pigmalione Michonnet. Molto bello.

Le due donne, entrambe debuttanti nei loro personaggi, deluderanno magari chi è legato alle Adriane “tradizionali” e pensa che la tradizione sia qualcosa di immutabile. Sta di fatto che, bellezza e carisma scenico a parte, entrambi però notevolissimi, la Opolais canta anche piuttosto bene, declama benissimo (difficile per una straniera risolvere il monologo di Fedra in un italiano non solo irreprensibile, ma accentato benissimo) e soprattutto esce dal cliché ormai stantìo della grande tragica attaccata “full time” alle tende. È un'Adriana non ridondante ma non rinunciataria, proprio per questo molto intensa, alla fine interessantissima. Stesso discorso per Simeoni, che non ha certo la voce strabordante delle Bouillon del buon tempo antico ma lavorando sull’accento e sulla recitazione crea un personaggio sfaccettato, autentico, lacerato, cosa che ci interessa sicuramente di più. Certe controscene da Regina cattiva di Biancaneve (nel secondo atto, il costume è quello) valevano da sole la visione.

Che l’oggetto dei desideri delle due belve sia proprio Luciano Ganci appare un po' improbabile. Ganci appartiene alla non folta schiera dei tenori simpatici, ma non è esattamente Brad Pitt. Il timbro è però bello e lui canta piuttosto bene, anche se quasi sempre troppo forte: ma la colpa è anche di Cilea che condivideva con i suoi contemporanei l’insana passione di far cantare i tenori sempre sul passaggio di registro. È poi eccezionale il Michonnet di Nicola Alaimo. Questo personaggio fa presto a diventare stucchevole: stavolta invece è buono e non buonista, di una simpatia, proprio nel senso etimologico della parola, virile, ruvida, schietta, commossa quindi commovente. Comprimari abbastanza buoni, direzione puntualissima di Asher Fisch, che non fa lo zerbino ai cantanti né frana nel sentimentalismo prêt-à-pleurer come accade nove volte su dieci in quest'opera insidiosa. Bellissima serata con contorno di nostalgia: coprotagonista a tutti gli effetti è il bellissimo Comunale bolognese, una di queste nostre case sì belle e da troppo tempo perdute.

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