L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Pizzi contro Händel

di Francesco Lora

Il Rinaldo del 1985 passa a Firenze: lo spettacolo delle meraviglie vale ancora un precetto ma àltera la partitura in modo non più accettabile. Sugli scudi il direttore Sardelli e le prime donne Aspromonte e Remigio.

FIRENZE, 7 settembre 2020 – Cimieri tiepoleschi, mantelli svolazzanti, cavalli mariani, gestualità enfatica, movimento su carri: Rinaldo di Georg Friedrich Händel con regìa, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi è lo spettacolo fortunato che ha girato il mondo dopo le sue prime rappresentazioni a Reggio nell’Emilia; rimesso a nuovo in coproduzione tra il Teatro La Fenice di Venezia e quello del Maggio Musicale Fiorentino, sta appunto festeggiando i suoi primi trentacinque anni a Firenze, con quattro recite dal 7 al 13 settembre nella sala di piazza Vittorio Gui: col recupero della produzione cancellata in primavera, l’allestimento inaugura la nuova stagione d’opera e insieme segna il ritorno di uno spettacolo completo sulla scena di una fondazione lirica italiana. Ogni volta che si riprende il Rinaldo di Pizzi, è precetto che il teatrofilo melomane vi assista. Però. Però le ultime volte, a Milano nel 2005 e a Ferrara, Ravenna e Reggio nel 2012, i figuranti che senza posa muovono i carri e agitano i manti – cioè i figuranti che hanno in mano la cifra stessa dell’allestimento – avevano mostrato una maestria tecnica ben superiore. Però – soprattutto – il valore visivo dello spettacolo cozza viepiù con le vessazioni che esso infligge alla partitura, in un braccio di ferro che vede sempre esuberare il libero estro immaginifico di Pizzi sulla logica musicale e teatrale di Händel. Gli arbitrii che potevano passare inosservati nel 1985, in altre parole, oggi risultano ben evidenti, seccanti, anacronistici. Le sforbiciate ai versi e alle musiche ammontano a un’ora tonda d’ascolto e compromettono chiarezza e tenuta del filo drammaturgico. Poi vi sono le dislocazioni irragionevoli di arie, le trasposizioni di tonalità e le confusioni di registri, nonché le contaminazioni – inammissibili – tra la stesura originale del 1711 e il radicale rifacimento del 1731 (che è di fatto un’altra opera, col gusto di vent’anni dopo). Nossignore: a dispetto di certe storielle raccontate dagli pseudomusicologi – quelli che vorrebbero la civiltà del Barocco come luogo di libertà indiscriminate anziché di sottilissime norme – non con questo criterio si faceva teatro d’opera nel Settecento. Ed è ironia della sorte che nel programma di sala fiorentino, come già in quello milanese del 2005, si trovi impaginato un illuminante saggio di Reinhard Strohm, illustrazione perfetta di cosa Rinaldo sia e di come debba essere letto senza cadere in derive.

Nei teatri odierni – nonché nelle recensioni: metà se n’è già andata – comanda il regista. Il concertatore è secondo in carica: Federico Maria Sardelli, brillante musicologo e filologo scrupoloso, deve – deve – dunque dirigere da una partitura adulterata, la quale vanta la medesima stabilità della casa molto carina cantata da Sergio Endrigo. Lo fa però da pari suo: modella fonica e fraseggio dell’Orchestra del MMF con la stessa edenica o incisiva plasticità propria degli strumenti antichi, giovandosi tuttavia della maggiore vividezza e risonanza; identifica i metri di danza alla base di quasi tutte le arie e li tratta come tali: le due antitetiche sarabande, «Cara sposa, amante cara» e «Lascia ch’io pianga», ritrovano così il perduto nerbo; coglie più in generale la polilalia musicale händeliana, commista di elementi italiani, germanici e francesi, ove ciascuno attende una specifica pronuncia in croccante contrasto con gli altri. Per la prima volta, il Rinaldo secondo Pizzi incrocia poi un protagonista che non è mezzosoprano in travestito corpo femminile, bensì falsettista nel suo naturale aspetto maschile. Si tratta di Raffaele Pe, ossia di un cantante qui capace di mandare in corto circuito il recensore: quasi in ogni aspetto lo si vede oscillare, durante la recita, tra esiti accattivanti e altri invece carenti. Estensione e volume sono ampi ma soffrono talora stiramenti e forzature; l’agilità salta a intermittenza da una bella granitura a maldestri arruffamenti; le variazioni sono ora messe a punto con acume, ora azzardate e confuse nell’idea; l’idiomatica italianità di materiale e attitudini tende a imitare estranei modi inglesi; la virile presenza scenica agognata da Pizzi soffre spesso un’inesperta timidezza. Pericoloso diviene allora duettare con le due paritetiche prime donne. Francesca Aspromonte, come Almirena, pone in faccia una gamma omogenea dalla prima all’ultima nota, nonostante un porgere trepido e l’avventurarsi in diminuzioni ad alto rischio. Carmela Remigio, come Armida, è invece la perfezione stessa in fatto di smalto, duttilità, proiezione, disinvoltura scenica e sottigliezza espressiva. Leonardo Cortellazzi sostiene con tenorile espansività la parte contraltile di Goffredo. L’acuta, spiegata, imperiosa e rimbombante aria «Sibilar gl’angui d’Aletto» sta troppo larga ad Andrea Patucelli, che nel resto della parte d’Argante mostra però la cura di studio mancata a molti predecessori.

foto Michele Monasta


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