Firenze

Firenze, l'opera torna in teatro col Rinaldo di Händel al Maggio diretto da Sardelli

La stagione è ripresa là dove era stata interrotta dal lockdown, con le scene già montate
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Come nulla fosse successo in queste mesi, il Teatro del Maggio ieri ha ripreso la stagione d'opera da dove l'aveva interrotta al momento del lockdown. Dal “Rinaldo” di Händel: lasciato da montare ai primi di marzo e adesso finalmente andato in scena – repliche 9, 10, 13 settembre. Che da allora a oggi abbia imperversato il Covid si percepisce soltanto dal fatto che la platea sia mezza piena, causa regole sul distanziamento, e tutta in mascherina. Sul palco, invece, il virus non ha lasciato traccia. Come lo spettacolo era stato progettato, così si vede. Progettato, in realtà, oltre tre decenni fa; e ora, dopo aver girato per ogni dove, l'età che ha non la dimostra.

Ugualmente senza tempo il suo papà regista-scenografo-costumista, Pier Luigi Pizzi, novanta primavere, che a ricevere i tanti battimani del pubblico arriva di corsa al proscenio. Spettacolo fatato, il suo. Ogni cosa è finzione, artificio, e dunque teatro allo stato puro, meraviglia di quadrerie barocche in azione, vesti sontuose dalle mille fogge e tinte, con ali di stoffa o strascichi sempre fluttuanti nell'aria. Luci magiche, cangianti (curate da Massimo Gasparon) che di ciascun personaggio traducono l'emozione interiore in colore vivido: negli ocra, nei rossi spiritati, negli azzurrini, nei verde mare. È una coreografia la gestualità dei personaggi, e loro stessi, prima che persone cui batta un cuore nel petto, sono congegni scenici: manichini semoventi collocati su carri in forma di nave, di trono, di cavallo (nella battaglia finale ne giganteggiano addirittura quattro) che una ventina di figuranti manovrano qua e là, in un turbinio continuo.

D'altronde la trama del “Rinaldo”, derivata liberamente dalla “Gerusalemme liberata”, appare come un carosello di cavalieri, armi, amori, stregonerie. E stregonesco è Pizzi, della cui premiata fabbrica di meraviglie questa messinscena porta il marchio; lui, per giunta, la partitura händeliana del 1711 l'ha tagliata e ricucita a suo gusto, il che, forse, è l'unica maniera di rendere accettabile un tale drammaturgia al pubblico attuale – e pazienza per i filologi che storcono la bocca. Anche se comunque in questa esecuzione l'aderenza della musica alle prassi d'epoca è ben garantita, sia in buca, dalla direzione di Federico Maria Sardelli, sia nel cast (il controtenore Raffaele Pe, Carmela Remigio, Francesca Aspromonte, Leonardo Cortellazzi, Andrea Patucelli, William Corrò).

Sardelli, anche inforcando la pignoleria dello studioso che conosce a menadito la materia, fa assumere all'orchestra i tratti netti, acuminati, di un bianco e nero da xylografia. Ma non si tratta di freddezza. È la necessaria presa d'atto dei meccanismi rigorosi che indirizzano la scrittura di Händel. Un rigore che pure nel canto si manifesta, però piegandosi, intimamente, a tanti sentimenti diversi, dal furore alla mestizia. Dell'una è maestra la Remigio (nella parte incandescente della maga Armida), dell'altra la Aspromonte e Pe, un Rinaldo più incline al languore che al campo di battaglia.