L’Opera al Circo Massimo

L’Opera di Roma ricomincia alla grande con il Rigoletto, con Daniele Gatti, Damiano Michieletto e  un ottimo cast

Rigoletto (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Circo Massimo, Roma
Rigoletto
16 Luglio 2020 - 20 Luglio 2020

Il Rigoletto al Circo Massimo è stata la prima rappresentazione operistica in grande stile - veramente grande - in Italia e probabilmente in tutti i paesi colpiti così duramente dal covid19 ed è stata anche un importante simbolo della rinascita del paese dopo il superamento – speriamo – della fase più difficile dell’epidemia, solennizzato dalla presenza del  Presidente della Repubblica e dei Presidenti dei due rami del Parlamento, di ministri e ambasciatori. Ma è stata soprattutto un’eccellente edizione del capolavoro verdiano, di cui si è parlato soprattutto per la regia di Damiano Michieletto, come sempre esuberante di idee molto personali, alcune geniali e altre meno, e come sempre capace di attirare su di sé tutta l’attenzione, fin da settimane prima che lo spettacolo andasse in scena. E attraverso interviste, dichiarazioni e comunicati stampa abbiamo potuto seguire il farsi di uno spettacolo in continua evoluzione, man mano che le norme sul distanziamento sociale cambiavano e le idee del regista si chiarivano e si organizzavano.

Infatti lo spettacolo è stato ideato quando le disposizioni anti contagio erano estremamente restrittive, perciò si era costruito nel Circo Massimo un vastissimo palcoscenico di 1.500 metri quadrati - il triplo di quello del Teatro dell’Opera – su cui sistemare sei automobili d’epoca (circa il 1980) e ai margini opposti la giostra gestita da Rigoletto a destra e la roulotte in cui abita a sinistra. Nelle auto avrebbero dovuto prendere posto i solisti, garantendo così il necessario distanziamento, ma, per ovviare in qualche modo a questa situazione così particolare, per non dire assurda, le immaginidei personaggi riprese dal vivo sarebbero state proiettate su un grande schermo collocato in fondo al palcoscenico.

Poi le regole sul distanziamento sono diventate meno severe e Michieletto ha dimostrato il suo talento e la sua impressionante padronanza del palcoscenico adattandosi senza battere ciglio alla mutata situazione. Ha fatto scendere i solisti dalle automobili per muoverli più liberamente sul palcoscenico, attorniati all’occorrenza da un discreto numero di figuranti, mentre il coro restava in una tribunetta laterale, invisibile, con grande vantaggio per la scioltezza e la dinamicità dell’azione. Non era però più possibile cambiare l’impianto scenografico, cosicché l’azione si svolgeva regolarmente sul palcoscenico, ma l’elemento dominante dello spettacolo rimaneva lo schermo, usato per portare in primo piano alcuni dettagli della recitazione o per farci vedere momenti dell’azione che sarebbero rimasti nascosti: Gilda prima di entrare in scena cambia con un dimesso maglione il succinto e provocante abito di un rosso squillante con cui era uscita di casa, evidentemente all’insaputa di Rigoletto. Ma lo schermo serve a Michieletto soprattutto per scavare nella psiche dei personaggi,esplicitando con le immagini i loro pensieri, ricordi e stati d’animo. Gilda ripensa più volte ai fugaci momenti felici trascorsi da bambina con la mamma morta. Ma crescendo quella bambina è diventata molto meno tenera e innocente (d’altronde come altro poteva diventare, considerando l’ambiente in cui è cresciuta?) tanto che, quando il padre le si rivolge con “piangi, fanciulla”, la vediamo aggirarsi sullo schermo tra palloncini colorati, che poi fa scoppiare uno ad uno: disillusione per l’amore andato in fumo o menefreghismo verso l’affetto soffocante del padre o entrambe le cose?

Ma su questa trasformazione della consueta immagine di Gilda ritorneremo, perché ora bisogna dare atto a Michieletto che lo spettacolo era molto ingegnoso e complesso e  realizzato con un’abilità tecnica prodigiosa da lui e dai suoi consueti collaboratori Paolo Fantin e Carla Teti, a cui questa volta si sono aggiunti Chiara Vecchi per i movimenti coreografici e Filippo Rossi per la “regia camere live”. Ma, a causa della vastità della platea costruita per accogliere 1.400 spettatori distanziati l’uno dall’altro, la molteplicità di piani – e di significati – della regia sfuggiva alla maggior parte del pubblico, che vedeva poco e male quel che accadeva in palcoscenico e poteva seguire lo spettacolo soprattutto sullo schermo. Paradossalmente funzionava meglio in televisione: per dirla tutta, quando l’ho visto in diretta la sera della prima non avevo capito gran che bene come lo spettacolo funzionasse, ma, quando l’ho rivisto in differita dopo aver assistito alla seconda recita, finalmente ho potuto apprezzare in pieno il lavoro di Michieletto, molto complesso anche per lo spettatore .

Passando dagli aspetti più tecnici della realizzazione all’interpretazione che la regia dà di quest’opera, le idee di Michieletto sono tante e ne viene fuori una rilettura per molti aspetti rivelatrice ma talvolta discutibile. La meno opinabile delle sue idee fu rappresentare il Duca e la sua corte come una gang di criminali, perché tali effettivamente sono, se si pensa alla loro imprese: assassinii, rapimenti, stupri. Invece fu uno choc vedere Gilda non così totalmente ingenua e casta come viene normalmente rappresentata. D’altra parte l’immagine di Gilda come una bambolina è piuttosto stucchevole e oggi suona falsa, sebbene sia così che Verdi la propone, fin dalla sua aria d’entrata, piuttosto stucchevole anch’essa (che Dio mi perdoni!). Ma, a veder bene, anche secondo Verdi Gilda non è sempre così liliale e innocente, se più volte mente al padre, lo inganno e gli disubbidisce. Insomma non è una bambola ma un personaggio vero, una donna in carne ed ossa, non una donna angelicata.

Non solo Gilda ma tutta la fauna umana del Rigoletto  è ambigua e contraddittoria e in questo sta la novità e la modernità di quest’opera  rispetto alle precedenti, quando i cattivi erano cattivissimi e i buoni totalmente buoni. Che in Rigoletto  l’ingenuità non esista è una regola che Michieletto applica perfino alla breve apparizione del paggio (a cui lascia gli abiti femminili, trattandosi di un soprano), che non è così ingenuo da non capire al volo quel che sta succedendo nella camera da letto del Duca, tanto che, quando chiede “Senza Paggi? Senz’armi?”, ammicca:  ha già mangiato la foglia.

Rigoletto è rappresentato in modo più tradizionale, almeno apparentemente, ma in realtà è ripensato in ogni dettaglio, grazie all’approfondito scavo nella sua psiche, che ne evidenzia - non spiega, perché non è spiegabile razionalmente - il comportamento contorto e contraddittorio. Questo non sarebbe stato possibile senza Roberto Frontali, giunto a una splendida maturità. La sua mimica facciale (che si poteva pienamente apprezzare soltanto in televisione) era degna di un grande attore e il suo canto coglieva con sottili inflessioni la malvagità, la debolezza, l’amore, la rabbia, la disperazione e il dolore, che si alternano e spesso convivono nell’animo di uno dei personaggi più complessi creati da Verdi.

Rosa Feola ha dato a Gilda una voce immacolata ma anche un carattere volitivo – molto volitivo, ostinato, quasi intrattabile in alcuni momenti – e ne fece una donna vera e non la solita bambolina,accogliendo i suggerimenti della regia. La voce giovane e baldanzosa - e anche ben timbrata ed usata con tecnica adeguata - del peruviano Iván Ayón Rivas era ideale per il vanesio e arrogante Duca. Riccardo Zanellato e Martina Belli vestivano benissimo i panni di Sparafucie e quelli (pochi) di Maddalena. Ottima la nutrita schiera dei comprimari, tutti ideali per i loro personaggi, da  Gabriele Sagona (Monterone), Irida Dragoti (Giovanna), Alessio Verna (Marullo) e Pietro Picone (Borsa) a quelli con una parte veramente minima come Marika Spadafino (Paggio) e Angela Nicoli (Contessa di Ceprano).

L’eccellenza della realizzazione musicale era coronata dalla splendida direzione di Daniele Gatti, che è riuscito ad essere altrettanto e forse ancor più analitico in questi spazi enormi (ma ovviamente l’orchestra era amplificata, come le voci) che nell’edizione al chiuso del dicembre 2018. Collegando i vari “numeri” diede una profonda continuità musicale e drammatica a quest’opera - che ha un’articolazione formale nuovissima per l’epoca - e con tempi all’inizio tendenzialmente lenti e poi molto veloci, ma sempre evitando effetti plateali, esaltò il progressivo, inesorabile crescere della tensione fino al tragico finale.

 

 

 

 

 

 

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