L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Padre, figlia, amante alle luci del Barsò

di Irina Sorokina

Seguendo con scrupolo le necessarie norme di sicurezza è possibile tornare a godere della musica dal vivo, come dimostra la lodevole iniziativa del Teatro Regio di Parma. Questo Rigoletto "al barsò" non avrà convinto tutto per concezione e coerenza registica, ma ha saputo colpire nel segno con una locandina composta da giovani interpreti (concertatore Alessandro Palumbo compreso) con il protagonista più esperto di Federico Longhi.

PARMA, 29 giugno 2020 - L’opera ai tempi del coronavirus, una cosa bizzarra. Sembra una regina caduta in disgrazia e mandata in esilio. Dai teatri rosso e oro dove prima della recita si ascolta “un ronzio impaziente di violini”, secondo una poetica descrizione di Franz Werfel, viene trasferita all’aperto onde evitare un eventuale contagio.

Nel caso di Parma, “La Signora”, come la chiama lo stesso Werfel, si trasferisce alla sala elegante del Teatro Regio con il palco ducale coronato, al “barsò”; l’espressione non crea forse problemi ai madrelingua, ma gli stranieri sicuramente devono consultare il dizionario. Quest’ultimo non ci dà al barsò, ma al bersò e recita: “Pergolato a forma di cupola costituito da una struttura di legno e di metallo ricoperta di rompicanti”. Nella nuova produzione del Teatro Regio i rompicanti mancano, ma il magnifico Auditorium Paganini funge perfettamente da pergolato e lo fa con eleganza. Può andare? Certo che sì, visto il desiderio ardente di tornare ad ascoltare la musica dal vivo che significa anche tornare alla vita di prima.

L’opera ai tempi del coronavirus non inizia però quando il pubblico si è comodamente seduto in poltrona, inizia con un gentile e dettagliato comunicato dell’ufficio stampa del Teatro Regio che descrive lo svolgimento della serata. Anche dopo una lettura attenta non si riesce a memorizzare ogni passo che si deve compiere per mantenere un comportamento non solo corretto, ma necessario. Si danno le indicazioni riguardo al parcheggio, ai chioschi dove si può acquistare il cibo e le bevande, si ricorda che all’ingresso vi misureranno la temperatura corporea, che i biglietti sono personali e quindi bisogna tenere sotto mano il documento d’identità, oltre che arrivare col dovuto anticipo. E la mascherina, stramaledetta, scomoda mascherina rimane un must e si toglie soltanto quando si siede in poltrona del teatro all’aperto costruito davanti all’Auditorium Paganini. Da non dimenticare il gel igienizzante per le mani e l’evitare rigorosamente gli assembramenti. Siamo ancora molto lontani dal ritorno alla vita di prima, ma tutte queste regole sono necessarie per poter ascoltare la musica dal vivo: ben vengano.

Con un sospiro di sollievo, bisogna ammettere che tutto è andato bene. Se qualcuno avesse avuto un dubbio riguardo questa produzione del popolarissimo titolo verdiano in scala ridotta e decisamente “spoglia”, si è sentito man mano rassicurato e ha cominciato a provare piacere.

A ognuno di noi è capitato di assistere alle produzioni fatte di nulla, ma questo Rigoletto al barsò è stato fatto di nulla che più nulla non si può. Parlare di un teatro all’aperto sarebbe stato decisamente esagerato, si è trattato di un piccolo palco addossato al maestoso Auditorium Paganini e giù dal palco una buca per orchestra, anch’essa piccola e aperta dalla parte del pubblico. Ridotta la quantità di professori e niente coro.

In questi tempi strani dove regnano i pericoli veri e immaginari, insicurezze e paure, e dove il terrorismo mediatico sembra trionfare, gli artisti sono stati tra le categorie più sofferenti e la riattivazione della stagione lirica del Teatro Regio di Parma merita grandi lodi per aver offerto la possibilità ai cantanti, tra cui molti giovani, di uscire di casa e di calcare il palcoscenico. Poco importa, a questo punto, se la produzione è stata fatta di nulla che più nulla che si può, se ha offerto un buon livello di canto. Ed è canto che ha coinvolto e affascinato un pubblico non numeroso ma cordiale.

Ma prima di riconoscere le buone qualità del cast, dedichiamo qualche parola alla regia di Roberto Catalano che, a nostro parere, è stata il punto più debole del progetto. Pur scrivendo una pagina e mezza delle note di regia e dichiarando prima dell’inizio la sua intenzione di “trasformare una difficoltà in un’opportunità” attraverso il gioco delle luci, Catalano non è riuscito a creare una valida veste teatrale per questo particolare Rigoletto. Ci è sembrato che questa regia, ridotta agli spostamenti dei fari da parte dei cantanti, sia stata fortemente segnata dalla mancanza delle idee chiare, e ha rispecchiato assai la situazione che stiamo vivendo, strana, confusa, illogica, dove si dichiara una cosa e si fa un’altra. Nello stesso tempo gli elementi scenici e costumi prodotti dal Teatro Regio e le luci di Fiammetta Baldiserri hanno dato un valido contributo alla riuscita dello spettacolo.

Il cast è stato capitanato dal ben conosciuto Federico Longhi, un vero mattatore della serata. Conosciamo bene questo artista che negli anni ha offerto alcune interpretazioni magistrali sia dei ruoli comici (il suo Kaidamà ne Il Furioso sull’isola di San Domingo a Bergamo qualche anno rimane indimenticabile) sia in quelli drammatici come Rigoletto, appunto. La sua arte intelligente non l’ha tradito anche questa volta, in questo Rigoletto in stile povero. Longhi, dotato di voce piuttosto chiara, non ha mai cercato di drammatizzare artificiosamente, di ricorrere a una scura passionalità, di forzare il volume, ma ha disegnato un personaggio in conformità alle sue doti. Il ruolo è risultato studiato scrupolosamente, ogni parola cantata segnata da una perfetta comprensione del senso e gli accenti sono stati impeccabili. Un piccolo ometto insignificante in balia dei giochi del padrone ci è sembrato simile a un celebre personaggio gogoliano, Akakij Akakievič del Cappotto, che subisce in silenzio gli insulti dei colleghi impiegati, ma poi si vendica in pieno di questa gentaglia trasformatosi in un fantasma che terrorizzava la popolazione si San Pietroburgo. Un confronto, forse, bizzarro, suggerito da una grande interpretazione dell’aria "Cortigiani vil razza dannata".

A fianco di Federico Longhi, due giovani se la sono cavati niente male nelle parti di Gilda e del Duca di Mantova. Giulia Bolcato, uno di quei soprani puliti e cristallini perfettamente adatti a impersonare ruoli angelici come Gilda e le sue simili, ha conquistato senza difficoltà gli spettatori grazie al phisyque du role, un modo convincente di rapportarsi col pubblico, un buon legato e tecnica salda. Una cosa piuttosto insolita, la giovane cantante è riuscita a girare al suo vantaggio dei difetti che ha, un tono piagnucoloso e una certa opacità degli sopracuti; i suoni emessi hanno creato un effetto di commozione e il soprano ha riscosso un successo non indifferente in "Caro nome".

Il tenore costaricano David Astorga, anche se in assenza di un’evidente carisma scenico e un po’ acerbo, ha disegnato un Duca di Mantova convincente, in possesso di una bella voce e di una gradevole baldanza, ma non troppo incisivo. La sua prova vocale pure è stata segnata da una certa disomogeneità; ha cantato "Questa o quellacon tono frettoloso e l’acuto un po’ affaticato, "Parmi veder le lagrimesfoggiando accento pressappoco impeccabile e "La donna è mobilecon molta eleganza, ma a tratti ritmicamente impreciso.

Andrea Pellegrini nella parte di Sparafucile si è fatto notare grazie a una combinazione bizzarra fra l’evidente disumanità e l'impeccabile eleganza sia nel canto sia nella recitazione. Mai sopra le righe, perfettamente misurato, uno Sparafucile da non dimenticare, come da non dimenticare un’esuberante e seducente Mariangela Marini nei panni di Maddalena (ha coperto anche il ruolo di Giovanna).

Italo Proferisce è stato un convincente Monterone dall’atteggiamento nobile e dalla voce rotonda e una bella squadra dei comprimari, che non vorremmo chiamare tali, ha affiancato con una grande efficienza i tre protagonisti. Daniele Lettieri – Matteo Borsa, Gianni Giuga - Conte di Ceprano, Claudio Levantino - Marullo hanno saputo portare con disinvoltura gli abiti rinascimentali, stare bene al gioco, brillare d’ironia e spaventare per la mancanza di cuore, come hanno saputo formare uno perfetto ensemble vocale. Hanno completato dignitosamente il cast Chiara Notarnicola – un paggio e Emil Abdullaiev – un usciere.

Alessandro Palumbo sul podio ha assunto il difficile compito di dirigere la Filarmonica Arturo Toscanini parecchio ridotta. Il suono a tratti è stato esile e addirittura zoppicante; questa condizione particolare non ha impedito, comunque, una lettura energica e dai colori variopinti, come alcuni tagli della partitura non hanno influenzato la resa drammaturgica del capolavoro verdiano. Alla fine gli applausi pienamente meritati.


Vuoi sostenere L'Ape musicale?

Basta il costo di un caffé!

con un bonifico sul nostro conto

o via PayPal

 



 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.