L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Metastasio e Mozart, a imparare qualcosa

di Francesco Lora

Nella Clemenza di Tito al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino si ritrova l’allestimento parigino di Willy Decker, sul quale si staglia con maggiore consapevolezza il discorso musicale di Federico Maria Sardelli e di cantanti tutti italiani.

FIRENZE, 24 marzo 2019 – Caduto il progetto di un nuovo allestimento scenico prodotto in loco, per le quattro recite del 20-27 marzo al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino La clemenza di Tito di Mozart ha contato su uno spettacolo con le referenze dell’Opéra di Parigi e con vent’anni abbondanti sulle spalle: quello con regìa di Willy Decker, scene e costumi di John Macfarlane e luci di Hans Toelstede. La squadra reca con sé la bellezza d’immagini mai estromessa dalla poetica dei singoli, con qualche tipica arditezza prospettica e la satirica connotazione della schiera cortigiana. Al cospetto delle sottigliezze pedagogiche nel libretto metastasiano, finisce però smascherata l’insufficienza analitica del testo, tollerabile nel contesto internazionale di Parigi ma non in quello madrelingua di Firenze: anche qui si osserva, in altre parole, l’imbarazzo del regista straniero nell’assicurare il movimento a un’azione da lui percepita come statica, là ove l’ovvia soluzione sarebbe non inventare controscene riempitive, bensì esaminare i versi e lavorare con gli attori. Le iniziative personali tradiscono le lacune di erudizione. Decker, per esempio, non si accontenta che la partenza di Berenice da Roma sia raccontata, ma vuole che essa sia inscenata come pantomima; di conseguenza, due scene prima avviene l’adattamento di un verso (testo) con un tempo verbale sgradito all’idea registica (pretesto): non «Berenice partì. – Come? – Che dici?», comune endecasillabo alla base dei versi sciolti di un recitativo, ma «Berenice partirà», con quell’impossibile sillaba di troppo che fa aggrottare la fronte, d’istinto, anche a chi non si preoccupi ogni giorno di faccende metriche.

Oltre che dal chilogrammo di fiorentina in laborioso corso di digestione, il contropelo del critico è invocato dal concomitante discorso musicale. A Firenze è stato dato il privilegio di veder recitare una compagnia di canto tutta italofona, dalla quale non una parola finisce depauperata nel suo intelligibile ruolo retorico e teatrale; e la concertazione è stata affidata a quegli che oggi è tra gli italiani il più lucido, onesto, franco e perito esegeta della letteratura mozartiana teatrale non meno che di quella strumentale. Con l’Orchestra e il Coro del MMF, Federico Maria Sardelli ha ormai letto in lungo e in largo le composizioni sinfoniche e sacre del Salisburghese, nonché di Gluck e di un dotto florilegio di colleghi; è stato – ed è tuttora – il più meritevole traghettatore delle abitudini delle maestranze verso una gestualità musicale classica filologicamente fondata. Nella Clemenza di Tito egli le ha guidate all’insegna dell’essenziale, dell’elegante, del chiaro, del perentorio, risvegliando i cervelli più che interpellando gli intestini, e nobilitando così i cuori di chi, per caso o per scienza, è venuto a imparare qualcosa da Metastasio e Mozart.

Tra i cantanti, la prima donna e il primo uomo si avventuravano nel Settecento protoromantico venendo da esperienze soprattutto secentesche e barocche, assai formative dal punto di vista espositivo ma meno esigenti sul piano di mezzi naturali e risorse tecniche. Roberta Mameli, come Vitellia, porterebbe in dote il proprio acume espressivo, se non fosse tenuta in ambasce dalla modesta risonanza e dall’inadeguata estensione: il Re sopracuto è omesso, il Sol grave manca di corpo, le note calanti proliferano; né chi scrive prova gusto a riferirlo, dopo i timori già covati in occasione del recente Re pastore veneziano [leggi la recensione]. Giuseppina Bridelli, come Sesto, si muove con la stessa circospezione onde evitare passi falsi, ma nel rondò dell’atto II dà applaudito fuoco alle polveri di quanto fin lì contingentato. Protette dal rango secondario delle parti di Servilia e Annio, Silvia Frigato e Loriana Castellano non hanno invece bisogno di giocare in difesa per illustrare la loro forbitezza artistica. Senza essere memorabile per timbro e agilità, eloquio e smalto, il Tito Vespasiano del tenore Antonio Poli s’impone però per la spontanea e immacolata prosodia italiana, dando filo da torcere – anche per timbro e agilità, eloquio e smalto – a intere generazioni di sedicenti specialisti dell’area inglese e tedesca. Che con Sardelli nulla sia affidato al caso lo dimostra infine il Publio di Adriano Gramigni, giovane basso mai vociante, comprimario d’esperienza ma palesemente abnegato alla crescita: la sua arietta, tradizionale luogo di mediocrità orrifica, è non solo intonata con garbo e misura, ma impreziosita con insperate e benvenute variazioni.

foto Michele Monasta


 

 

 
 
 

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