L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Wagner all’italiana

di Francesco Lora

Der fliegende Holländer al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino è la prima di tre sole opere wagneriane previste nella stagione d’opera italiana: in riva all’Arno si impongono il meticoloso direttore Fabio Luisi e le maestranze, mentre il nuovo allestimento scenico delude e la compagnia di canto sa difendersi.

FIRENZE, 13 gennaio 2019 – Nella stagione d’opera in corso, l’Italia ha dimenticato Wagner. Tre sole eccezioni: due al Teatro Petruzzelli di Bari e al San Carlo di Napoli, con altrettanti allestimenti della Walküre nella prossima primavera; l’altra al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, dove il 2019 è iniziato con quattro recite del Fliegende Holländer (10-17 gennaio). Più sfavillante che tumultuosa, in esse, si è collocata la direzione di Fabio Luisi: che non per caso fa riferimento alla versione ultima con la “trasfigurazione” tristaniana in coda all’Ouverture e all’opera tutta; che non per caso si rapporta al testo più come raccontando una ballata che come agendo su un dramma; che non per caso va così a valorizzare la fibra metallica, ma soprattutto la cantabilità all’italiana, di Orchestra e Coro del MMF; che non per caso, infine, sostiene in tal modo cantanti dignitosi ma di secondo mercato in fatto di genio, natura, tecnica e insomma caratura.

Thomas Gazheli, nella parte protagonistica, se ne avvantaggia: ben timbrando qui e là il proprio registro misto, alla maniera di tanti baritoni liederisti germanici, consegue un canto incline più alla sfumatura pensosa che alla superficiale esibizione dei muscoli, e dà luogo a un personaggio poco fascinoso nella dannazione e per nulla grandioso nella cavata, ma onesto rispetto al proprio bagaglio d’interprete e all’orizzonte lirico dello spettacolo. Smalto e volume sono invece profusi in abbondanza dall’imponente soprano Marjorje Owens, a discapito di una caratterizzazione di Senta adeguata al rovello psicologico del personaggio. Al serioso basso Mikhail Petrenko la bonarietà mercantile di Daland calza con qualche forzatura, ma la relativa leggerezza della parte gli si addice meglio che l’onere dei vari Fafner, Hunding e Hagen. Senile, fibroso, monotono e lamentoso suona poi un mozartiano alla tedesca qual è il tenore Bernhard Berchtold: ma il ruolo di Erik lo tollera.

A deludere è invece il nuovo allestimento con regìa di Paul Curran, scene di Saverio Santoliquido e costumi di Gabriella Ingram. Intorno al 2005 il regista aveva vantato un periodo di grido sulle scene liriche italiane: piacerebbe ora annunciarne il rilancio. Ma se si aggrotta la fronte leggendo da lui che Senta sarebbe «un’antesignana del femminismo nella letteratura operistica», peggio è assistere a una lettura tradizionalissima in apparenza, e in verità disinteressata a qualsiasi spunto che dall’elementare drammaturgia apra il varco alla doverosa analisi antropologica. Fino a una clamorosa collezione di ingenuità nel finale: i cadaveri ambulanti che muovono dal vascello mentre il relativo coro, mal amplificato, sciupa la monumentale architettura musicale pensata dall’autore; Senta che strattona e manda reiteratamente al tappeto l’imbelle Erik; la medesima che torna pacatamente indietro dal precipizio per ostendersi in una trasfigurazione da madonnesca cartolina.

foto Terra project / Contrasto


 

 

 
 
 

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