L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La recita di Don Giovanni

 di Roberta Pedrotti

Michele Mariotti lascia la direzione musicale del Comunale di Bologna affrontando per la prima volta Don Giovanni: una lettura, la sua, ricca di preziosismi ma interlocutoria e aperta a futuri approfondimenti. Non aiuta, certo, a riuscita complessiva dello spettacolo la pessima regia di Jean-François Sivadier, mentre le due compagnie di canto si alternano fra luci e ombre.

BOLOGNA, 15 e 16 dicembre 2018 - Il palco è il catalogo e se “ogni villa, ogni borgo, ogni paese è testimon di sue donnesche imprese” è perché non stiamo parlando di un uomo in carne ed ossa, ma della rappresentazione di Don Giovanni. Forse. L'impianto di questa produzione proveniente da Aix en Provence è senz'altro metateatrale, con palco, luci, catinelle, quinte e sipari che sono anche lenzuola e sudari; tuttavia, una volta intuito l'ambiente in cui ci troviamo, tutto pare finalizzato a confonderci le idee nella regia di Jean-François Sivadier (ripresa da Rachid Zanouda e Milan Otal, assistente alla regia Federico Vazzola). Si spandono qua e là spunti e dettagli che magari potrebbero anche non essere privi di interesse potenziale, ma rimangono irrelati, lasciati a loro stessi, in una drammaturgia che più pasticciata non si potrebbe. Ogni possibile interpretazione si àncora a un “forse” e sbanda fra mille contraddizioni, sfiancando alla fine anche la volontà dello spettatore più bendisposto a comprendere le intenzioni registiche. Sembra che Don Giovanni sia una sorta di depravato capocomico che si sbarazza con una pugnalata del suo predecessore ma resta perseguitato dalla sua ombra, mentre la rappresentazione man mano va a rotoli: tuttavia, si tratta di una traccia drammaturgica che s'intuisce flebile ed è il lavoro di Sivadier ad andare a rotoli sprecando uno dei più grandi capolavori del teatro di tutti i tempi. Addirittura, è un Don Giovanni in cui, sì, per una volta vediamo il protagonista concretizzare esplicitamente almeno una conquista (la cameriera di Donna Elvira), ma nonostante ciò non si percepisce mai il minimo alito di seduzione, sensualità, erotismo. Se non bastasse l'inconsistenza dei personaggi e della narrazione, la fisicità asettica risulta perfino indisponente. Le cose, però, riescono a peggiorare nel finale, che nelle fotografie della produzione originale sembrava quasi alludere a un Commendatore/ doppio di Don Giovanni (cosa che, se anche fosse risultata comprensibile a Bologna, sarebbe rimasta come un ennesimo spunto sradicato e troncato sul nascere). Quel che vediamo, invece, è solo un protagonista che, contorcendosi, per rispondere al Convitato di pietra si denuda e rimane in mutande, atteggiandosi a crocifisso. Il Burlador di Siviglia, dunque, come un Cristo? Ipotesi quantomeno audace che piomba all'improvviso senza ragione e com'è venuta si dilegua, convertendo tosto il libertino in uno spiritello irridente alle prese con i suoi nuovi poteri ectoplasmatici mentre zompetta fra i sopravvissuti. Poiché, nella morale finale, “dei perfidi la morte alla vita è sempre ugual”, Don Giovanni fantasma in mutande continua a far quello che ha sempre fatto in vita, deride e sbeffeggia in moto perpetuo.

Giacché né la scena di Alexandre de Dardel, né i costumi di Virginie Gervaise, né le luci di Philippe Bartholomé (con la collaborazione di Jean Jeacques Beaudouin) o il trucco di Cécile Kretschmar offrono qualche soddisfazione, non stupisce troppo che di tutti questi artefici della messa in scena (ben nove persone) nessuno si sia presentato ai ringraziamenti finali, tranne Zanouda, ma in quanto attore impegnato direttamente con Cyprien Colombo (il molesto e superfluo tirapiedi di Don Giovanni) e Klara Cibulova (la cameriera di Donna Elvira). Scelta irrituale, ma che risparmia una prevedibilissima e comprensibilissima tempesta di contestazioni a guastar quella che avrebbe dovuto essere la festa del congedo di Michele Mariotti, alla sua ultima prima operistica come direttore musicale del Teatro Comunale. Con i solisti, il coro preparato da Andrea Faidutti e i tre attori, sale sul palco a festeggiare il maestro l'orchestra intera, e si dissipa così fra gli applausi l'amarezza di uno spettacolo tanto atteso ma che non risulta, nel suo complesso, all'altezza di altri visti a Bologna in quest'ultimo decennio (Mariotti stesso, per quel che lo riguarda, cita proprio fra i suoi ricordi più belli Le nozze di Figaro e La bohème, e non possiamo non associarci).

il cast del 15 dicembre

Sulla scena, nel giro di meno di ventiquattro ore, debuttano due compagnie di canto che si compensano sostanzialmente per pregi e difetti, mostrando forse nella seconda recita una maggior fluidità e coesione, ma in entrambi i casi una sostanziale equivalenza baritonale fra Don Giovanni e Leporello che, a prescindere dal valore degli interpreti, non giova alla miglior resa dei pezzi d'assieme, il cui equilibrio richiederebbe più sostanza nel registro grave. Ciò nonostante, Vito Priante, che veste i panni del servitore la sera del 15, risulta uno dei migliori cantanti nella produzione: emissione impeccabile, musicalità fine e intelligente, dizione chiarissima, arguta misura nel fraseggio in favore di un personaggio ambiguo e franco allo stesso tempo. Si fa valere, comunque, nel pomeriggio seguente anche Omar Montanari, disinvolto nell'articolare il testo con vocalità pulita e moderno gusto comico.

Al Leporello più disincantato corrisponde il Don Giovanni più istrionico e sanguigno di Simone Alberghini; con buon equilibrio il servitore più incline alla comicità si affianca a un padrone dal tratto più sinistro e signorile, Alessandro Luongo. In Alberghini l'estroversione fa il paio con una certa disomogeneità vocale (buona, però, la scena della dannazione), mentre Luongo esibisce un'emissione ben controllata ed elegante, soprattutto nella serenata del secondo atto.

I due tenori risultano complementari, ma anche dalla combinazione non traiamo grandi appagamenti. Paolo Fanale ha voce un po' nasale ma salda e compatta, anzi, si direbbe, fin troppo, ché l'espressione risulta perfino monolitica, monocorde negli accenti e limitata nelle dinamiche e nei colori: può essere un bene rendere Don Ottavio più vigoroso e meno svenevole, ma ciò non deve significare rinunciare a sfumare. Infatti, al suo primo apparire Davide Giusti fa ben sperare proprio per un fraseggio più duttile ed efficace, se non fosse che il canto non si mostra all'altezza e troppe sono anche, nel corso della recita, le scivolate d'intonazione.

Note positive provengono dalle voci femminili. La sera del 15, Donna Anna è Federica Lombardi, che si riconferma una delle interpreti più interessanti della nuova generazione per questo repertorio: specie nel registro centrale, il timbro è di grana preziosa, con bruniture affascinanti, l'espansione franca e ben levigata, il canto modulato con gusto e sensibilità. Purtroppo il passaggio all'acuto risulta ancora perfettibile – lo si avverte soprattutto nelle filature e nei passaggi d'agilità del rondò – ma, lavorando a dovere su questo aspetto, la promessa si potrà senza difficoltà trasformare in fuoriclasse. Non ha problemi, viceversa, Ruth Iniesta, che nella recita successiva sfoggia, con giusta espressione, la sua vocalità lucente, ben tornita, compatta e insieme duttile, sì da siglare una prova che suscita plauso incondizionato. Si contrappone, peraltro, assai bene alla Donna Elvira di Raffaella Lupinacci, che, sempre nel pomeriggio del 16, mette in luce un temperamento nobile e volitivo, oltre alla sicurezza di una voce mezzosopranile cui la scrittura mozartiana (compresa “Mi tradì quell'alma ingrata”, che essendo destinata a Caterina Cavalieri, sollecita maggiormente il registro acuto) sembra proprio calzare come un guanto. Invece, la sera della prima, Salome Jicia – soprano avvezzo anche a tessiture anfibie, ma pur sempre soprano – non si era trovata altrettanto a proprio agio, e forse nemmeno in perfetta forma, benché anche nel suo caso non manchino talento e carattere.

Sostanzialmente buone le due Zerline: il 15 Lavinia Bini canta con morbidezza, anche se soffre il carattere anodino dell'allestimento che le nega malizia e pepe; mentre Erika Tanaka riesce a liberare quel pizzico di sano e vitale erotismo che è la ragion d'essere del personaggio.

Non cambiano da una recita all'altra gli interpreti di Masetto e del Commendatore: il primo è Roberto Lorenzi, dai mezzi interessanti che, data la giovane età, devono ancora trovare piena espressione; il secondo è Stefan Kocan, già fra gli interpreti del Don Giovanni che nel 2011 aveva inaugurato la stagione della Scala. Allora, però, era Masetto e non aveva proprio entusiasmato, mentre oggi come Commendatore ci rivela la sua vera voce di basso, imponente e pregnante anche sul piano scenico, tanto da giustificare una regia che lo vuole spesso presente all'azione.

Il coro assolve con la consueta disinvoltura all'impegno piuttosto esiguo richiesto da Mozart e Da Ponte; prima della recita domenicale fa sentire, con tutti i lavoratori del Teatro, una volta in più la sua voce in un comunicato congiunto di solidarietà ai colleghi della Fondazione Arena di Verona, che da tre mesi occupano gli uffici amministrativi. In questo stesso 16 dicembre al Filarmonico avrebbe dovuto debuttare La bohème, saltata per un'agitazione sindacale: oramai i nodi del passaggio da Enti a Fondazioni liriche, del sistema inefficace del finanziamento alle attività culturali e di recenti disposizioni (il “Decreto dignità”) ostili alle esigenze delle attività teatrali sono venuti drammaticamente al pettine.

Ma questa è, o dovrebbe essere, una festa, una festa di commiato in cui si saluta un direttore musicale per dieci anni attivo al Comunale, si guarda al futuro e ci si promettono nuovi incontri. Senza contestazioni finali agli artefici della messa in scena, abbiamo detto, l'abbraccio fra Michele Mariotti, il pubblico, i musicisti, il teatro è completo, sentito e commosso. Corona un debutto impegnativo sia per la monumentalità infinita e insondabile del capolavoro, sia per l'oggettiva difficoltà di realizzarlo senza una visione registica intelligente e complice. Tuttavia, l'impegno teatrale sarebbe evidente già nella volontà – sacrosanta – di affiancare nei recitativi il violoncello al cembalo, restituendo l'ampiezza espressiva del recitativo secco in una tavolozza che, purtroppo, Sivadier e i suoi collaboratori non sanno sfruttare. Così, se si fatica a trovare la sintesi nel complesso della produzione, si possono riconoscere i dettagli analitici nell'approccio di Mariotti. I colori sono deliberatamente asciugati all'estremo (nell'intervista riportata nel programma di sala il concertatore dichiara che Don Giovanni non ha colore, è “bianco e nero”), si privilegiano atmosfere notturne, come nel sestetto del secondo atto, che pare immergersi felpato in una densa e tenebrosa foschia, o in un convito soprannaturale particolarmente illividito; viceversa “Fin ch'han dal vino” ha un'irruenza vitalistica brillante e quasi violenta, sia pure a costo d'incalzare il cantante, con Alberghini che mostra affanno e Luongo che incespica nel testo. Mariotti sembra quasi scardinare dall'interno l'architettura strumentale isolando timbri, cellule ritmiche o melodiche, suggestioni che porta in evidenza in maniera anche spregiudicata, senza temere qualche sbavatura (capitano in entrambe le recite). Preziosismi talora perfino calligrafici permeano questa lettura, con momenti talora assai efficaci, talatra inseriti in un lavoro ancora in evoluzione verso una sintesi completa e un respiro unitario che sviluppi il suo potenziale, riveli il suo mordente.

Insomma, è un Don Giovanni, quello di Mariotti, che rimane aperto al futuro, ricco di premesse, prese di posizione, spunti che, da questo debutto, potranno germogliare, magari specchiandosi e riconoscendosi anche in una teatralità ben altrimenti compiuta.

 

il cast del 16 dicembre


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