di Alberto Bosco
Ha debuttato a Madrid con grande successo il nuovo allestimento dei Maestri cantori di Norimberga coprodotto dal Teatro Real con i teatri di Copenhagen e di Brno.
La messa in scena curata da Laurent Pelly ambienta la vicenda in uno spazio piuttosto scuro e spoglio, con costumi da primi anni del Novecento e pochi riferimenti filtrati da un’estetica fumettistica all’epoca storica pensata da Wagner: un grande fondale sghembo con ampie vetrate come di una vecchia cattedrale ma senza colori, e casette di cartone dal tetto aguzzo affastellate una sull’altra come nelle stradine di una cittadina medievale, casette che poi vengono fatte saltare per aria dalla rissa che chiude il secondo atto. Questa monotonia cromatica ha lo scopo di concentrare l’attenzione sulle relazioni umane che si svolgono in scena, astraendole quindi un poco dal contesto in cui Wagner le aveva pensate, per proiettarle su un livello più generico, si vorrebbe dire, universale, sgrassandole di quella patina oleografica che la vicenda si porta con sé.
Quindi, niente colore locale e niente colori tout court, salvo nel quadro da grand-opéra che è la competizione canora del terz’atto preceduta da sfilate, cori e balli: momento di distensione musicale e visiva, in cui irrompono in scena masse e ballerini (magistralmente disposti e mossi sul palco) davanti a uno sfondo alpino all’aria aperta. Questo telone si stacca infine di colpo per dare spazio a neri nuvoloni quando il finale festoso vira nel prolisso peana al genio musicale germanico intonato da Sachs. L’effetto è notevole, perché allusivo e non invadente: da un lato non viene dimenticato che si tratta pur sempre di un’opera sull’arte e non un inno alla guerra imperialista, e infatti l’ultima parola scenica spetta ai due innamorati che avanzano sul proscenio e chiudono il sipario come su di un innocuo divertimento; dall’altro però non è ignorato il carattere inquietante del messaggio di alterità germanica rispetto alle frivolezze e debolezze latine. Infatti, senza voler dare a Wagner colpe non sue, è un fatto che anche in quest’opera l’umanità è divisa in volgo ed eletti, in questo caso uno solo in realtà: l’eroe cantore Walther von Stolzing che plana su questa città di scazzottatori, apprendisti, parrucconi e piccoloborghesi come un Lohengrin proveniente da un altro pianeta. Basterà infatti una generazione per passare dall’idea dell’artista cui tutto è concesso a quella del superuomo al di là del bene e del male e un’altra per estendere l’idea del superomismo a un intero popolo-razza.
Pelly mantiene lo spettacolo in un equilibrio giocoso, con i pedanti maestri che sembrano macchiette uscite dalle foto di classe del conservatorio di Parigi dei tempi di Dubois, con un Beckmesser trasformato in una caricatura piena di tic e mossette, e in generale facendo muovere i suoi personaggi, salvo il terzetto dei protagonisti nobili Eva, Walther, Sachs, con movimenti a scatti in perfetta sincronia con i numerosi passi gestuali e comici della partitura di Wagner. Partitura che Pablo Heras-Casado ha delibato con grande cura e senza forzare troppo la mano, lasciandola libera di scorrere con quella sovrana noncuranza nei confronti delle esigenze e delle aspettative dello spettatore che un autocompiaciuto Wagner, ormai sentendosi un maestro, è in grado di sfoggiare così riuscendo nella miracolosa impresa di ricreare l’eloquio imperturbabile e copioso di Bach, fonte ed origine di tutta la musica tedesca. Immersi in questa fiumana ininterrotta di controcanti e melodie, i solisti, tutti molto bravi, non si sono distinti in modo particolare, contribuendo alla buona riuscita dello spettacolo come parti di un tutto. A distinguersi invece è stato il coro, con una sonorità davvero compatta, fragorosa e festante.