Tragedia lirica in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave, da Byron
Musica di Giuseppe Verdi

Francesco Foscari Luca Salsi
Jacopo Foscari Luciano Ganci
Lucrezia Contarini Marigona Qerkezi
Jacopo Loredano Antonio Di Matteo
Barbarigo Marcello Nardis
Pisana Ilaria Alida Quilico
Fante Manuel Pierattelli
Servo del Doge Eugenio Maria Degiacomi

Orchestra dell’Emilia Romagna Arturo ToscaniniCoro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Matteo Beltrami
Maestro del coro Corrado Casati
Regia Joseph Franconi Lee
Scene e costumi William Orlandi
Luci Valerio Alfieri
Coreografie Raffaella Renzi
Regista collaboratore Daniela Zedda

Coproduzione Teatro Municipale di Piacenza,
Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena
5 maggio 2024

Oramai è diventata un’abitudine, che forse potrebbe non stupire più (e invece no: continua a farlo sempre, come se fosse la prima volta), ma al Teatro Municipale di Piacenza – leggasi “alla Piccola Scala” – sono andati in scena con un successo tonante I due Foscari di Giuseppe Verdi. Le riserve del giovane compositore, che vedeva quest’opera ricoperta da un grigiore quasi di polvere, troppo uniforme e fiacca, mi pare si siano tutte riassorbite in un’esecuzione niente meno che di riferimento. Perché se è vero che Verdi, in anni di produzione matta e disperatissima, ancora deve trovare la strada giusta allo scavo psicologico di eventi e personaggi, l’anello mancante nella risoluzione dei Foscari risiede proprio nella parte musicale – e registica, me questa è un’altra storia – che avrebbe il compito, ostico e, diciamocelo, a tratti ingrato, di immettere l’opera sui binari giusti, onde evitare deragliamenti verso sdilinquimenti ricercati od effettacci bandistici.

Matteo Beltrami rivolta la partitura come un calzino e riesce a venirne a capo in modo esemplare, nei fatti bilanciando raffinatezze estatiche ed impeti barricadieri, così da alzare l’asticella e porre un segno netto per le esecuzioni future. Tuttavia non si tratta solo di equilibrio d’insieme, ma pure di attenzione al dettaglio, a quelle frasi spesso sprecate: nel primo atto, ad esempio, tra la cavatina e la cabaletta di Lucrezia, il rapido ma esiziale scambio tra lei e Pisana acquista una valenza drammaturgica inedita, con una pennellata orchestrale che però contribuisce in modo determinante al capolavoro finale. E da ultimo, come se non bastasse, il respiro all’unisono tra buca e palco, in cui la bacchetta non si fa solo accompagnatrice, ma sostegno concreto alle ragioni del canto, senza perdersi o restarne mai sopraffatta: il Verdi degli anni di galera diretto così ne fa desiderare ancora. Se poi ci si aggiunge un’Orchestra Toscanini tanto intensa, radiosa e vogliosa di fare (nonché giovane), e un Coro del Municipale abbagliante e preparatissimo, la “buona “ frittata è fatta.

La compagnia di canto è il non plus ultra per quest’opera: Luca Salsi, quando sembra aver raggiunto lo zenit di maturità e completezza, si supera, in una crescita perpetua che è scavo, impegno ed applicazioni costanti. C’è poco da dire: è lui oggi il baritono a cui guardare per capire dove andare. Salsi si mette al servizio della parola verdiana e del canto come un sacerdote, in un circolo virtuoso, per nulla immediato o scontato, in cui l’artista diviene protagonista perché le ragioni del teatro musicale sono state assecondate e rese primarie. Un vero Doge gigantesco, che ha bissato nel furore generale una memorabile Questa è dunque l’iniqua mercede.

Luciano Ganci ha il grande merito di rendere credibile, senza mai strafare, una parte vocalmente disagevole e psicologicamente poco rifinita: il canto è gagliardo, robusto e saldo su tutta la gamma, il fraseggio diversificato, e se all’inizio si percepisce un po’ di tensione, la grande scena del carcere è da incorniciare, in un crescendo di mezze voci curate e acuti sfolgoranti.

Alla prevista Marina Rebeka – ancora afflitta da problemi di salute, cui auguriamo ogni bene perché la voglia di risentirla è tanta – è subentrata Marigona Qerkezi: e che subentro stratosferico! Il soprano prende la parte e ne fa letteralmente quel che vuole, senza mai un segno di cedimento, difficoltà o timore. La qualità del canto è impressionante, e quel che colpisce è l’audacia, la baldanza data dalla sicurezza (ben riposta) nei propri mezzi, che le permette di lasciare quel graffio in una donna battagliera come poche, prodromo delle future eroine verdiane: pianissimi rifiniti, acuti incisivi, agilità stordenti, e chi più ne ha, più ne metta. Eccezionale.

Molto bene Antonio di Matteo, nei panni di un Loredano insinuante, incisivo e nobilmente crudele; bene davvero anche l’accorata Pisana di Ilaria Alida Quilico. All’altezza il resto del cast: il Barbarigo di Marcello Nardis, il Fante di Manuel Pierattelli e il Servo di Eugenio Maria Degiacomi.

Si diceva all’inizio della risoluzione dell’opera, che risiede anche nell’aspetto registico: ecco, se è vero che “chi troppo vuole nulla stringe”, la regia di questi Foscari, firmata Joseph Franconi Lee, è quel troppo di cui si deve fare a meno – ma che cruccio – per non perdere il resto. Semplicemente dei cantanti in costume, con certe corse folli (e pericolose) di nobili e non su e giù per scale ripidissime, in una scena rotante simile a un pozzo rugginoso. Ma il peggio è la comicità involontaria: l’inizio del terzo atto troverà mai una risoluzione che non sia uno scemotto balletto in maschera? Chissà. Quel che è certo è che l’opera a Piacenza la si aspetta come si aspetta Babbo Natale: col brivido e il sorriso dell’attesa ripagata.

Mattia Marino Merlo