L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il Don Giovanni dei Muti

di Giuseppe Guggino

Dopo la prima saltata per sciopero, vanno in scena le altre recite del Don Giovanni mozartiano che conclude la stagione operistica del Teatro Massimo di Palermo con la solenne direzione musicale di Riccardo Muti e la regia della figlia Chiara.

Torino, Don Giovanni, 18/11/2022

Napoli, Così fan tutte, 23/03/2022

Streaming da Torino, Così fan tutte, 11/03/2021

Palermo, 28 ottobre 2023 - Nonostante le agitazioni sindacali che stanno interessando a livello nazionale il comparto delle Fondazioni lirico-sinfoniche si siano abbattute anche sulla prima più attesa dell’intera stagione d’opera del Teatro Massimo di Palermo, giunta all’ultimo appuntamento, vanno regolarmente in scena tutte le altre repliche del Don Giovanni mozartiano diretto da Riccardo Muti, con l’aggiunta “in corsa” di una recita straordinaria a recupero del turno prime. Si tratta di uno spettacolo originariamente concepito per il San Carlo di Napoli, poi annullato in piena emergenza covid e riprogrammato dal Maggio Musicale Fiorentino che, dopo un secondo annullamento, approda finalmente alla co-produzione fra il Massimo palermitano e il Teatro Regio di Torino, dove è già andato in scena – con una pressoché identica distribuzione artistica – esattamente un anno fa. Inutile dire che, pur nel contesto complessiva rilevanza con punte individuali di merito, l’elemento di interesse precipuo è la lettura del maestro napoletano che torna a misurarsi con la somma scrittura mozartiana a distanza di trentasei anni dalla sua prima volta nella sala del Piermarini, con lo storico spettacolo di Giorgio Strehler. La frequentazione della bacchetta di Muti con il teatro musicale di Mozart, risalente alle Nozze del Maggio Musicale di fine anni ’70, è forse uno dei capitoli più peculiari della sua parabola artistica, nel quale la curiosità – altrove assecondata, in terreno gluckiano o alle prese con il settecento napoletano – è sempre passata in secondo piano, a favore della solennità del suono, ricercata ricorrendo ad organici fin troppo opulenti in controtendenza alle coeve esperienze degli Harnoncourt, dei Marriner, dei Gardiner e così via. Restringendo il discorso alla trilogia dapontiana, se le letture delle Nozze e del Così fan tutte sono poi un poco mutate col passare degli anni, quest’ultima arricchendosi di paisielliane tinte pastello nell’ultimo approccio torinese, il discorso musicale con Don Giovanni sembra essersi modificato in misura ancor minore e prevalentemente nella direzione di un’agogica ancor più meditativa e solenne. Potrà risultare poco o per nulla pervaso d’eros questo Don Giovanni proiettato sin dall’inizio verso il tragico epilogo, certo è che l’indubbio carisma irradiato dal podio coinvolge i complessi stabili del Massimo palermitano in una prova assai convincente che nel recitativo accompagnato «In quali eccessi, o Numi» e nella cena di Don Giovanni trova i momenti di massima compiutezza esecutiva, come è facile attendersi da una lettura che della drammaticità fa la sua cifra distintiva.

Il giocoso è giocoforza circoscritto a poco oltre lo scatto agogico forsennato di «Fin ch'han dal vino» in cui spicca un Luca Micheletti che, eccettuata l’eccessiva tendenza a sghignazzare nei recitativi – resi, però, con la perizia del consumato attore di prosa – risulta pressoché ideale nei panni del ruolo eponimo. Il Leoporello di Alessandro Luongo non gli è da meno, anzi lo sorpassa per pregevolezza dello strumento, al pari della pregevole vocalità di Leon Košavi che ci si augura di riascoltare presto in parti di maggior impegno rispetto a Masetto. Eccettuato l’ordinario Commendatore di Vittorio De Campo, la distribuzione maschile del cast è completata da un notevolissimo Giovanni Sala, mozartiano d’elezione, qui onerato di entrambe le arie di Don Ottavio, cesellate sempre con perizia d’alta scuola.

Nell’enciclopedica concezione di Muti del capolavoro mozartiano le versioni di Praga e di Vienna di compenetrano onerando anche Donna Elvira di «Mi tradì quell’alma ingrata» in cui si apprezza la buona musicalità e le ottime intenzioni interpretative di Mariangela Sicilia, pur alle prese con una tessitura che la sollecita nel grave al di sopra delle proprie possibilità. Più omogenea è l’amministrazione del mezzo di Maria Grazia Schiavo che, tanto in «Or sai che l’onore» che nel rondò del secondo atto, si segnala per l’accuratezza di fondo, ad onta di un peso specifico più consono ad una prima buffa che non proprio d’una primadonna d’opera seria. Per contro rotonda e ricca di armonici è la caratura timbrica del mezzo di Francesca Di Sauro, a cui difetta ancora troppo spesso il pieno controllo dell’intonazione.

Lo spettacolo di Chiara Muti, al pari delle sue note di regia ricche di punti di sospensione, rimane un poco troppo sospeso nel totemico palazzo in rovina – reso dalla matita di Alessandro Camera come una facciata scivolata su di un piano inclinato – le cui porte e finestre sembrano quasi avelli che si schiudono, lasciando risorgere delle marionette che diventano personaggi indossando gli abiti che calano dall’alto, sospesi a delle grucce. Nel disegno più d’ombre che di luci di Vincent Longuemare poco si apprezzano i costumi di Tommaso Lagattolla, che sembrano disegnati con gran cura, assecondando il cliché di sottolineare l’eternità del mito di Don Giovanni ricorrendo ad abiti di qualsiasi epoca, come già nei recentissimi Puritani al Bellini di Catania; sicché Donn’Anna è una nobildonna del regno di Luigi XIV, Donna Elvira veste in stile belle époque e Zerlina è una ragazza degli anni ’50. Buona è la realizzazione dei recitativi, con qualche fastidioso eccesso di realismo, mentre perde il teatro ogni qualvolta si risolve nell’opera il problema del coro ponendolo fuori scena.

La sala in ogni ordine di palchi e in platea gremita da pubblico festante è buon viatico per un possibile futuro Macbeth verdiano dei due Muti…


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