Recensioni - Opera

Debutta Carmen a Macerata

Il demonio va sconfitto guardandolo fisso negli occhi

Da sempre il personaggio di Carmen crea in chiunque vi si accosti qualche turbamento: alcuni condannano in lei l’immagine di una donna totalmente autoriferita, altri al contrario ne esaltano l’autonomia e la voglia di libertà che sul finale la spingono ad avere un comportamento eroico di fronte alla morte pur di non rinunciare alla propria indipendenza. Nel personaggio in ogni caso vi è qualcosa di ancestrale, di viscerale, quasi di animalesco, è presente una arazionalità fuori dagli schemi che non è possibile inquadrare e definire con precisione.

Proprio da questa prospettiva parte la lettura registica che Daniele Menghini ha voluto attribuire al capolavoro di Bizet per la prima delle opere in cartellone del 59° Macerata Opera Festival.

A fare da guida e da mentore, grazie ad una serie di intermezzi narrativi posti fra un atto e l’altro, la figura di Arlecchino, maschera antichissima della tradizione italica che affonda le sue radici in un personaggio demoniaco, così come demoniaca è per Don José Carmen stessa, perché non allineata, perché spontanea, perché contraria a quell’ordine sociale che il mondo ci impone. Se il demonio lo si sfugge però, prenderà forza, sarà in grado di attrarci sempre di più e, prima o poi, ci trascinerà con sé nel baratro.

Si tratta della continua lotta fra istinto e ragione, fra spirito apollineo e spirito dionisiaco per dirla con Nietzsche, fra ataviche paure e desiderio di controllo della realtà. È la radice stessa del teatro, di quella tragedia greca che educa attraverso la messa in scena degli incubi umani più turpi e, da un altro canto, spettacoli così violenti e dall’esito scontato, ma al contempo probabilmente purificatori per chi li osserva, come la corrida: un modo ancestrale per sublimare la violenza che alberga in noi.

Nel pensiero di Menghini Carmen si identifica per certi versi col toro che in scena è onnipresente, squartato, lacerato, sul finale persino venerato: è destinata a morire fin dal principio.

La realtà può dunque essere davvero definita attraverso la parola “che squadri da ogni lato l’animo nostro informe”? I ruoli sono così ben determinati come vorremmo? No, ogni percezione del reale è necessariamente parziale. Ne consegue dunque che pian piano i personaggi stessi si trasformano in maschere e, da maschere quali sono e quali noi tutti siamo, iniziano ad agire.

La lettura che Menghini offre di queste tematiche è intelligente nel significato etimologico del termine, cerca cioè di comprendere la realtà e il caos che la circonda, ma è anche terribilmente arguta e guida lo spettatore in questo viaggio attraverso numerosi rimandi interni i quali, man mano che l’azione procede, palesano le intenzioni iniziali senza mai forzare il libretto. L’abilità del regista non si limita però a questo: la perizia nel muovere le masse è evidente, come lo sono la cura per il gesto scenico e il tratteggio dei personaggi.

Si tratta, inoltre, di uno spettacolo ideato appositamente per lo Sferisterio; lo si vede anche dalle belle scene di Davide Signorini che si integrano perfettamente con i mattoni del muro di fondo e riprendono alcune tematiche architettoniche caratteristiche dell’arena.

Curatissimi nei minimi dettagli i costumi di Nika Campisi, splendide le luci di Gianni Bertoli.

Ketevan Kemoklidze è una Carmen di vaglia, perfettamente caratterizzata e fortemente sensuale che ben incarna le intenzioni registiche. L’interpretazione vocale è intensa: lo strumento forse non è di volume amplissimo, ma il fraseggio è perfetto, l’emissione ben calibrata, l’acuto svettante e naturale.

Al suo fianco Ragaa Eldin è un Don José che, al netto di una leggera esitazione iniziale, ha saputo dare buona prova di sé in un netto crescendo nel corso della serata. Il timbro è bello, la voce solida sia nel registro centrale, sia in quello acuto, la linea di canto elegante, sebbene la sua figura a volte risulti un poco schiacciata dalla potenza di quella di Carmen.

Splendida la Micaëla di Roberta Mantegna la quale dà il meglio di sé nell’aria del terzo atto "Je dis que rien m’épouvante" cantata con intensità e vigore particolari che ben rendono l’affanno amoroso della fanciulla innamorata. Cristallini il registro acuto e sovracuto.

Fabrizio Beggi è un Escamillo dai tratti volutamente un poco grezzi e arroganti: timbro bello e scuro il suo, adeguata la potenza vocale, leggermente perfettibile forse la morbidezza di suono.

Preziose anche le parti di fianco del quartetto gitano che vede come protagonisti i sonori Armando Gabba (Le Dancaïre) e Saverio Fiore (Le Remendado) oltre alle deliziose Francesca Benitez (Frasquita) e Alessandra Della Croce (Mercédès).

Diligente e corretta la direzione di Donato Renzetti che mantiene sempre un ottimo contatto con il palcoscenico e con un’Orchestra Filarmonica Marchigiana davvero in grande forma. I tempi, inizialmente piuttosto serrati, si sono poi rivelati maggiormente distesi, all’interno di una lettura non particolarmente sfaccettata a livello di dinamiche.

Ottimi gli interventi del Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, ben preparato da Martino Faggiani e dei Pueri Cantores “D. Zamberletti”, diretti da Gian Luca Paolucci.