Spettacoli

Alcina – Grand Théâtre, Monte-Carlo

Alcina, di Georg Friedrich Händel, per la prima volta in forma scenica all’Opéra di Monte-Carlo. 

“Ombre pallide, lo sò, mi udite;
d’intorno errate, e vi celate 
sorde da me : perchè?
Fugge il mio bene; voi lo fermate,
deh! per pietate, deh!” 

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Cecilia Bartoli, Philippe Jaroussky, Sandrine Piau e Maxim Mironov

Con queste parole, alla fine del secondo atto, si consuma il dramma tutto interiore di Alcina, protagonista dell’opera omonima di Händel che ha visto la sua prima a Londra nel 1735. Una donna perfettamente conscia che il potere, in questo caso la sua magia, nulla può contro l’amore, una scena delicata e difficile che solo una interprete straordinaria può degnamente portare sul palco ed è questo il caso di Cecilia Bartoli. Sempre più raramente, purtroppo, capita di emozionarsi assistendo ad una rappresentazione e nello scrivere tante recensioni a volte il mestiere scavalca l’emozione. Cecilia Bartoli inaugura la sua direzione dell’Opéra di Monte-Carlo portando in scena una prova eccezionale, un personaggio già tante volte affrontato e con cui, negli anni, l’immedesimazione è diventata pressoché totale. Tutto lo spettacolo, già visto a Zurigo nel 2014 e poi nel 2017, appare ruotare attorno alla cantante. Nella idea del regista Chritof Loy, e dello scenografo Johannes Leiacker, il dramma si muove su un doppio piano. Inizialmente il palco si apre su una scena da teatro del Settecento con quinte di carta dai colori tenui. È solo nel secondo e terzo atto che capiamo di trovarci invece nei camerini e poi dietro le quinte di un teatro attuale e che abbiamo visto solo una riproduzione dell’antico. La vicenda amorosa del dramma è quella del libretto ma, al tempo stesso, quella della compagnia di canto scritturata per lo spettacolo: le movenze dei protagonisti sono lente, tutto fluttua fra realtà è finzione. Meravigliosi i costumi di Ursula Renzenbrink,  soprattutto nel primo atto, voluminosi , spettacolari e con un rimando al mondo settecentesco e che lasciano poi il passo ad abiti contemporanei. Curatissime le luci di Bernd Purkraebek, che contribuiscono a creare questa atmosfera sospesa da sogno ad occhi aperti. Volutamente ironiche e sopra le righe le coreografie di Thomas Wilhelm: siparietti buffi che stemperano il dramma. 

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Cecilia Bartoli, Philippe Jaroussky, Sandrine Piau e Varduhi Abrahamyan

Anche il versante musicale sembra porre la “diva” Bartoli al centro indiscusso dell’attenzione: una sorta di perno attorno al quale ruotano tutti gli altri personaggi (rappresentati, per altro, magnificamente dai rispettivi interpreti di questa produzione).

Al suo comparire in scena Alcina indossa, secondo i canoni estetici della tradizione barocca, uno splendido costume bianco e una importante parrucca. La sua prima aria “Di’ cor mio quanto t’amai” è affrontata con grande morbidezza e freschezza vocale, al fine di enfatizzare la malizia e la civetteria insiste nelle doti seduttive della maga. In questa pagina la Bartoli piega con duttilità straordinaria la propria vocalità e, con un vero e proprio arabesco di chiaroscuri, lascia ben intendere quella inquietudine che alberga nel cuore della donna, un presagio dell’imminente dissolversi dell’incantesimo d’amore che le assicura la fedeltà di Ruggiero. Al successivo ritorno in scena Alcina si presenta con un meraviglioso costume blu notte con il quale viene intonata l’aria “Sì, son quella, non più bella”, la cui esecuzione è tutta giocata sull’uso di piani e pianissimi che, oltre ad essere timbratissimi, rivelano, attraverso il ricorso ad un’ampia gamma cromatica, la tremenda presa di coscienza, da parte della maga, della fragilità umana e della caducità dei sentimenti. Ancora una volta la grandezza dell’interprete riesce a commuovere e a conquistare il pubblico ammaliato dalla forza espressiva della più sottile lamina di suono. Nel secondo atto Alcina torna in scena per dare vita alla pagina più alta di questa serata: “Ah, mio cor! Schernito sei!”, un brano dalla grande forza drammatica che ben sottolinea l’impossibilità della grande incantatrice di contrastare l’abbandono del suo Ruggiero. La Bartoli domina la scrittura häendeliana con piglio da autentica tragédienne, suono e parola si fondono in una simbiosi esemplare, ogni frase del testo prende vita attraverso un ventaglio sconfinato di colori e di emozioni. Ne sortisce un momento di vero teatro salutato da un’ovazione interminabile del pubblico. Del pari sensazionale il finale secondo “Ombre pallide”, la scena della invocazione delle furie infernali. Qui, una Bartoli in sottoveste nera si erge sul palco come una Erinni in preda allo sconforto più totale e non esiste più nulla se non il suo gesto, il suo sguardo e quel canto vorticoso espugnato con una grinta senza precedenti. Anche in questo caso l’espressività del canto vince sulla precisione esecutiva che le consente, tra l’altro, di sciorinare agilità staccando le note ad una ad una senza sbavature o imperfezioni. Nel terzo atto si torna al meraviglioso abito blu notte di primo atto e ad Alcina tocca in sorte il brano “Ma quando tornerai”, tipico esempio di aria di furore. Ancora una volta non si può che lodare la sontuosa, quasi irreale, bravura con la quale la cantante riesce a dominare il canto di agilità previsto dalla scrittura musicale. Rilevante la chiave di lettura di questa pagina, un misto di incredulità che il destino possa oramai cambiare e di stizza che sottolinea la natura forse più umana che divina di questa Alcina. Un aspetto ben evidenziato dai movimenti sulla scena della artista che, con il suo accenno a mosse delle arti marziali per minacciare il povero Ruggiero, suggerisce l’ironia del momento (dopo tutto il barocco non ha come fine ultimo quello di stupire e di farlo anche attraverso gli eccessi e i paradossi?). Resta, poi, il finale, quel “Mi restano le lagrime”, intonato dalla Bartoli che, indossando un tubino nero, si tiene puntata una pistola alla tempia. Tutto è compiuto, la maschera dell’incantesimo è stata strappata e la donna è sola con il suo dolore. La purezza della vocalità dolente, quasi sussurrata, dell’interprete, raggiunge il sublime e raggiunge le corde dell’anima dello spettatore che viene travolto da tanto pathos. Abbiamo voluto scandagliare appositamente ogni aria di questa grande Alcina per sottolineare come l’interpretazione di Cecilia Bartoli sia qualcosa di assoluto e inarrivabile, un manuale di canto per precisione tecnica, controllo del fiato e dominio indiscusso della scrittura, ma anche, e soprattutto, un coacervo di emozioni, una partecipazione emotiva totale, un’analisi e un cesello del testo in grado di offrire una chiave di lettura di una umanità e modernità sconcertanti. In altri termini una prestazione da vera e autentica fuoriclasse!

Accanto a lei giganteggia la Bradamante di Varduhi Abrahamyan, in possesso di una vocalità dal colore vellutato e dal timbro screziato. La linea, ampia e voluminosa, si espande con facilità e sicurezza mantenendo una compattezza ed omogeneità tra i registri ragguardevoli. Di gran pregio il canto di agilità, ben controllato e mai forzato. Del pari riuscite le pagine di carattere più patetico, sorrette da un canto sul fiato melodioso ed incisivo. Di livello l’interprete sia per scavo nel fraseggio sia per immedesimazione e disinvoltura nei movimenti sulla scena.

Bene anche la Morgana di Sandrine Piau, nella cui vocalità si riscontra una certa familiarità con questo repertorio, particolarmente evidente nella spiccata appropriatezza stilistica del canto. Alla freschezza dei virtuosismi della celeberrima “Tornami a vagheggiar” si unisce il malinconico e struggente abbandono di “Credete al mio dolore”, affrontata con delicata sensibilità e la giusta intensità emotiva. La leggiadria della figura e l’eleganza nei movimenti, contribuiscono alla credibilità del personaggio.

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Varduhi Abrahamyan

Philippe Jaroussky torna a vestire i panni di Ruggiero, una delle parti più affascinanti (e complesse) tra quelle concepite per controtenore. Jaroussky sfoggia una linea dalla inconfondibile musicalità, che non si risparmia nei virtuosismi così come nel canto spiegato. Al netto di qualche impercettibile segnale di affaticamento nel registro più acuto, dovuto probabilmente anche alla lunghezza e alla difficoltà di una parte a dir poco insidiosa, la sua è una prova maiuscola che tocca il vertice assoluto nell’aria “Verdi prati”, dove viene esibito un legato magistrale, unito ad una intensità di fraseggio di sognante trasporto. Rilevanti sono, inoltre, la compostezza e la varietà del fraseggio, l’eleganza e la naturalezza delle movenze sceniche.

Pregevole la prova del tenore Maxim Mironov, al suo debutto in un ruolo del repertorio häendeliano. La vocalità del tenore, dal colore chiaro e luminoso, ben si disimpegna nella scrittura dell’autore convincendo pienamente nella esecuzione delle arie previste per il personaggio di Oronte. Di rilievo la precisione stilistica e la incisività del fraseggio. Godibile e ben tratteggiato il personaggio sulla scena.

Completa la locandina il basso Péter Kálmán che, con voce sonora dal bel colore scuro dà vita al personaggio di Melisso. Una interpretazione che convince grazie alla proprietà dell’accento, granitico e ben scolpito, e alla credibilità di una presenza scenica ironica e partecipata.

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Philippe Jaroussky, Péter Kálmán e Varduhi Abrahamyan

Alla eccezionalità delle prove di un cast sì grandioso fa da contraltare la direzione meditata e di grande ispirazione del Maestro Gianluca Capuano, una autentica garanzia per questo tipo di repertorio. Ciò che colpisce, nella direzione del Maestro, è la sua capacità di scandagliare ogni frase musicale ed entrare nella profondità del suono con fantasia senza mai perdere di vista la totale aderenza stilistica alla scrittura dell’autore. Il barocco di Capuano ci trasporta così nel mondo incantato di Alcina attraverso dinamiche sonore quantomai variegate e sfumate, merito di un lavoro esemplare sulla compagine dell’ensemble barocco de Les Musiciens du Prince-Monaco che mostra una precisione esecutiva impareggiabile. Oltre alla citata affidabilità esecutiva, rileva la abilità interpretativa della compagine orchestrale che riesce, sotto la guida ineffabile di Capuano, a valorizzare con perizia ed incisività, la valenza espressiva di ogni aria (nel differenziare, tra l’altro, le dinamiche tra la prima e la seconda parte di ogni brano) e di ogni recitativo.

Trionfo al calor bianco al termine con acclamazioni per tutti gli interpreti e direttore e una vera e propria apoteosi, ça va sans dire, per la diva Bartoli. Vedere il pubblico, che esauriva totalmente la sala, in piedi ad applaudire tutti gli artisti, è il coronamento ideale per l’inizio di una nuova era per l’Opéra di Monte-Carlo. Un inizio promettente per un nuovo capitolo del teatro monegasco.

ALCINA
Dramma per musica in tre atti
Libretto anonimo da L’isola d’Alcina di Riccardo Broschi dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto
Musica di Georg Friedrich Händel 

Alcina Cecilia Bartoli
Ruggiero Philippe Jaroussky
Morgana Sandrine Piau
Bradamante Varduhi Abrahamyan
Oronte Maxim Mironov
Melisso Péter Kálmán 

Les Musiciens du Prince-Monaco
Direttore Gianluca Capuano
Regia Christof Loy
Scene Johannes Leiacker
Costumi Ursula Renzenbrink
Luci Bernd Purkrabek
Coreografie Thomas Wilhelm

Foto: Presse ©OMC – Marco Borrelli