L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il dissoluto ammaestrato

di Antonino Trotta

Trionfale accoglienza per Riccardo Muti al Teatro Regio di Torino: nel suo Don Giovanni s’impone il parterre maschile con le voci di Luca Micheletti, Alessandro Luongo, Giovanni Sala e Riccardo Zanellato.

Torino, 18 novembre 2022 – Serate così, al Regio di Torino, non si vivevamo da un bel po’: la sala del Mollino piena fino all’ultima poltrona, l’elettricità nell’aria prima dello spettacolo, le istituzioni politiche in prima fila, dame, cavalieri e gaie fioraie imbellettate a condire l’evento col quel pizzico di mondanità che, sorvegliato dalla morigeratezza dello stile sabaudo, non guasta mai. E poi, diciamolo, ad abbracciare il tutto c’è un entusiasmo palpabile e coinvolgente innescato, ancor prima che dal pubblico, della forza lavoro del Teatro stesso; un entusiasmo che ha quasi il sapore del riscatto, venato dall’orgoglio per quanto svolto, che confida, ancora una volta, il desiderio di un ritorno ai fasti di una volta, che si trasforma in linfa vitale per coro e orchestra, ieri in forma pressoché smagliante. Ecco allora che il Don Giovanni di Mozart diretto da Riccardo Muti, l’appuntamento più atteso della stagione ormai prossima al termine, più che un evento, per il Regio è una vera e propria occasione, l’occasione per ribadire la propria centralità nel tessuto culturale torinese e, perché no, riallacciare anche quel legame solido con la città che negli ultimi anni è parso andare logorandosi. Detto questo, si venga allo spettacolo.

In buca, Riccardo Muti dirige magnificamente tenendo fede alle aspettative: il suo Don Giovanni è il trionfo dell’eleganza e della raffinatezza espressiva, dell’intarsio strumentale che impreziosisce il velluto orchestrale rotondo e smaltato, dei tempi talvolta dilatati all’inverosimile per cristallizzare momenti di catartica estasi – mozzafiato, ad esempio, è la lettura di «Dalla sua pace» –, della razionalità, del controllo, della misura nei finali d’atto letti con sublime maestria. Dell’apollineo, in sintesi, che ammutolisce il dionisiaco. La perfezione, però, ha un prezzo: il teatro. Già perché in questa carrellata di numeri superbamente concertati, a mancare, almeno secondo il gusto di chi scrive, è una narrazione unitaria che abbia vero mordente, un’idea di fondo graffiante, un brivido drammatico che sappia percorrere l’intera partitura dalla prima battuta della sinfonia all’ultima nota del finale secondo.

Certo, nemmeno sul palcoscenico succede nulla di particolarmente interessante. Pur con qualche buona idea di fondo e qualche scena visivamente molto ben riuscita – tipo la discesa negli inferi del protagonista –, la regia di Chiara Muti – con costumi di Tommaso Lagattolla, scene di Alessandro Camera e Luci di Vincent Longuemare – è tradizionale a tratti e in definitiva disordinata: quando i personaggi non ricordano di essere marionette condannate a recitare eternamente lo stesso ruolo, la recita procede secondo consolidata prassi. Non si perde poi occasione di inserire gag da commedia all’italiana, accentuando il lato goliardico del dramma nonostante il tutto si svolga quasi interamente in un paesaggio inquieto e plumbeo.

Il cast, che vede gli uomini trionfare, è nel complesso ben assortito. Luca Micheletti e Alessandro Luongo, rispettivamente Don Giovanni e Leporello, sono i veri mattatori della serata: scenicamente convincenti e vocalmente impeccabili, entrambi fanno sfoggio di maestria nell’emissione sulla parola, di fraseggio costruito con teatralità massima, di abilità di convogliare nel canto l’arte della tecnica e dell’interpretazione. Giovanni Sala è un Don Ottavio nobilissimo, capace di mezzevoci flessuose e fiati da balena – tant’è che la già citata «Dalla sua pace» resta uno dei momenti più alti dello spettacolo –. Riccardo Zanellato, nei panni del Commendatore, non fa altro che rammentare la sua classe. A Mariangela Sicilia manca solo un po’ di polpa in basso per essere un’eccellente Donna Elvira: al di là della volitiva coloratura messa a segno nei passaggi di agilità, Sicilia sa ritrarre, grazie alla soavità del timbro, alla varietà d’accento e alla bellezza della linea vocale, tutte le sfaccettature del personaggio, nonostante il taglio piuttosto riduttivo imposto dalla regia – un’oca giuliva dall’inizio alla fine –. Jacquelyn Wagner è una Donna Anna abbastanza impersonale: canta solo note. Leon Košavić è un Masetto corretto, Francesca Di Sauro una Zerlina troppo spesso imprecisa nell’intonazione. Ottima la prova del Coro del Teatro Regio di Torino istruito dal maestro Andrea Secchi.

Applausi scroscianti e ovazioni da stadio per Muti padre.


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