Torino, Regio Opera Festival 2022: “Carmen”

Torino, Cortile di palazzo Arsenale, Regio Opera Festival seconda edizione.
“CARMEN”
Opéra-comique. Adattamento e testi di Sebastian F. Schwarz. Libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy. Edizione in lingua originale francese con testo narrato in italiano.

Musica di Georges Bizet
Carmen KETEVAN KEMOKLIDZE

Don José JEAN-FRANÇOIS BORRAS
Micaëla  BENEDETTA TORRE
Escamillo ZOLTÁN NAGY
Narratore   YURI D’AGOSTINO
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Paolo Vettori
Scene Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Luci Lorenzo Maletto
Allestimento Teatro Regio
Torino, 21 giugno 2022
Da giovani studenti, dalle finanze precarie, ci si accontentava di acquistare l’LP degli highlights from delle opere, tralasciando a malincuore il cofanetto completo, così il Regio di Torino, costretto dalla logistica precaria e da casse che languono, ci offre una purtroppo mal confezionata selezione di Carmen. Al solstizio d’estate, all’aperto, per la luce solare l’opera non può iniziare prima delle 21 e non può finire oltre le 23,30 (alle 24 ultima corsa della metro). I 30′ di intervallo tolgono altro tempo… ne rimangono 120′ e l’opera ne richiederebbe almeno 160. Se si vuole mantenere il titolo, per il richiamo che si ritiene abbia sul pubblico, si lavora quindi di forbici. Le ragioni economiche colpiscono il coro dei bambini, Frasquita e Mercédès, el Dancairo, el Remendado, Zuniga e Moralès. Rimane solo il   quartetto dei protagonisti e l’ingombrante, piuttosto invasiva presenza di un attore, in veste dello stesso Bizet si lancia in siparietti, alquanto stucchevoli, che si mangiano ulteriore 10% del tempo disponibile. Tempo che avrebbe evitato il taglio della Scena delle carte del terz’atto e dell’opera, 8 minuti in tutto, rinsecchito nei 3 minuti della solitaria smazzata di Carmen, privata dei fondamentali sostegni, a preparazione e conclusione, delle amiche. Gli interventi dell’attore, il pur bravo Yuri D’Agostino, scritti dal Direttore artistico del Regio Sebastian Schwarz, purtroppo non si limitano ad illustrare la vicenda, di cui la frammentarietà dell’esecuzione e il francese potrebbero essere di ostacolo per una piena comprensione, ma vanamente divagano su aspetti della vita dell’autore e della storia dell’opera con allegati risibili rilievi di costume e di attualità.
L’aspetto visivo dello spettacolo è, ovviamente, al risparmio, sia per le scene di Claudia Boasso che per i costumi di Laura Viglione, ad un generico trovarobato. Il tutto illuminato, per quanto si possa fare in una serata di solstizio, dal consumato mestiere di Lorenzo Maletto. È un’Andalusia in nero. Nessun accenno, in contraddizione con la condotta musicale, alla festa e alla leggerezza della partitura. La regia di Paolo Vettori si destreggia a fatica in questo, non per sua colpa, vuoto di racconto. È una selezione di arie a cui trovare un raccordo. Vettori ha però affrontato, con coraggio, l’impresa disperata. Rimane inspiegabile perché la povera Carmen, vestita come Jeanne Moreau in Jules et Jim, pantaloni neri, maglietta a righe e fazzoletto attorno al collo, si trascini per la scena, invece di indossarlo, uno scarlatto costume andaluso; allo stesso modo, quando Escamillo è in scena, nero vestito, viene issato un giacchino da torero, rosso trapuntato oro, come lo stendardo della madonna in una processione. Sesto Quatrini e l’Orchestra del Teatro Regio, hanno due interventi formidabili: il prelude all’atto primo e l’entr’act del terzo.
Il primo velocissimo e miracolosamente leggero è una salutare brezza in una sciroccosa serata di infuocato giugno. Anche l’improvviso terribile tema del destino, che in altre circostanze, con altri interpreti, ossessiona la serata, qui è una folata passeggera. L’entr-act dell’atto dei Pirenei suona trasparente, aereo, sfumato come una serata montana illuminata dalla luna. Nel rimante della recita, l’orchestra con la collocazione forzatamente ingombrante, disgrazia del luogo!, stenta a trovare il giusto equilibrio col palco. Tant’è che l’eccellente Coro del Teatro Regio, sotto la sagace guida di Andrea Secchi, pare sempre in leggerissimo ritardo sui tempi strumentali. Il cortile dell’Arsenale, forse inevitabile luogo per questa manifestazione, architettonicamente bellissimo, è quanto di più indicato per sfilate e giuramenti, quanto meno lo è per la musica e per l’opera. I sacrifici e gli artifici richiesti a suonatori e cantanti sfiorano l’eroismo. Carmen è l’avvenente mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze, già, di recente, trionfante Charlotte al Petruzzelli di Bari. Timbro fascinoso in volume contenuto. Impeccabile nel rispetto del segno scritto, frutto sicuramente di buona scuola e di costante studio. La figura snella e nervosa ne fa l’ideale per una Carmen da Opéra-Comique, però in un teatro adeguato, in cortile o in arena l’esprit de finesse che pure la dizione impeccabile promuove, ne esce penalizzato. Il costume mascolino non contribuisce ad amplificarne ulteriormente il fascino naturale. Habanera, Seguidilla, Chanson bohème impeccabili ma lontane, su un palco barricato dalla massa orchestrale e insonorizzato dalla vastità del luogo. Vorremmo veramente vederla questa Carmen, su un palcoscenico adeguato, in una sala a misura di canto e non di banda. Jean-François Borras è musicalmente e vocalmente un Don José di spicco. Tenore lirico di grazia “alla francese” che, con voce timbrata salda e sicura, affronta vincente le difficoltà della parte. Mai, in teatro, abbiamo ascoltato una Romanza del Fiore più bella. Sfumata per mille colori, tutto della partitura è rispettato, la voce “gira” mirabilmente nell’affrontare l’acuto con voce mista sostenuta, timbratissima e scevra da querulo falsetto. Pare inevitabile l’accostamento allo svedese Gedda, per molti insuperabile nella parte. Poco si può dire dell’interpretazione complessiva del personaggio, troppo le forbici hanno sacrificato. Nella scena finale sia José che Carmen soffrono dello scarso appoggio e coinvolgimento che gli offre l’orchestra. I due cantano “nel vuoto” di un accompagnamento passivo e di maniera per cui la scena sconta l’assenza di un vero spessore drammatico. Benedetta Torre che, per sostituire la titolare vittima di un incidente, ha raggiunto la compagnia alla prima prova, è stata Micaëla. A dire il vero, ne ha cantato le due arie. Bella voce, timbro caldo e rotondo che “corre”. Nella circostanza si son notate alcune ombre nell’accostare la parte alta del rigo. Del personaggio e dell’interpretazione, nulla si può dire. Le due arie non suggerivano, tranne la dolcezza, nessuna caratterizzazione specifica: una buona prestazione, senza mende, da concerto vocale. Per ultimo, in tutti i sensi, l’Escamillo di Zoltàn Nagy, giovane avvenente, di origine ungherese. Il famoso couplet del Toreador nel secondo atto, qualche minuto con José nel terzo e poco meno con Carmen nel quarto ed è tutto. Non si poteva trovare qualcuno, senza farlo venir dalla lontana Pannonia, che cantasse meglio di questo volonteroso nipotino di Attila? Le reazioni dell’abbondante pubblico, fortunatamente per il botteghino un tutto esaurito, sono state blande, anch’esse condizionate dal cortile che ammutolisce tutto. La Romanza del fiore che, cantata così, avrebbe meritato ripetute ola da stadio, si è presa, a fatica, un timido applauso, come pure le fascinose habanera e seguidilla. Meglio è andata alla querula tirata di Micaëla e al berciato Couplet del Toreador. C’è il fondato sospetto che il pubblico italiano, per Carmen, non si sia ancora emancipato dalle ferine vociferazioni di un recente passato e dalla tradizione che ne faceva un’opera splatter.