Pesaro, 42° Rossini Opera Festival 2021: “Moïse et Pharaon”

Pesaro, Vitrifrigo Arena, Rossini Opera Festival, XLII Edizione
“MOÏSE ET PHARAON”
Opéra en quatre actes di Luigi Balochi ed Étienne de Jouy
Musica Gioachino Rossini
Moïse ROBERTO TAGLIAVINI
Pharaon ERWIN SCHROTT
Aménophis ANDREW OWENS
Éliézer ALEXEY TATARINTSEV
Osiride / Voix mystérieuse NICOLÒ DONINI
Aufide MATTEO ROMA
Sinaïde VASILISA BERZHANSKAYA
Anaï ELEONORA BURATTO
Marie MONICA BACELLI
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso
Direttore Giacomo Sagripanti
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia, Scene e Costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e Luci Massimo Gasparon
Danzatori solisti Maria Celeste Losa, Gioacchino Starace
Nuova produzione
Pesaro, 16 agosto  2021
«La douce aurore | qui vient d’éclore | promet encore | un plus beau jour». Uno dei cori iniziali del Moïse et Pharaon risuona beneaugurante nei confronti non solo dell’opera, che infatti termina “in gloria”, ma anche di un ritorno pressoché completo alle consuetudini teatrali libere (o quasi) dalle funeste restrizioni della scorsa stagione. Il Rossini Opera Festival sta realizzando il ricco programma della XLII edizione con ottimi risultati, se non fosse per il numero ridotto degli spettatori negli spazi chiusi, a causa delle disposizioni sanitarie. Moïse et Pharaon mancava al ROF dal 1997, anche se nel 2011 fu messa in scena la prima versione napoletana della partitura, ossia il Mosè in Egitto del 1818-1819: entrambi quegli allestimenti recavano la firma di Graham Vick, il regista scomparso a Londra lo scorso 17 Luglio a causa del Covid, e che a Pesaro aveva collaborato al festival tra il 1994 (L’inganno felice) e il 2019 (Semiramide). La direzione del ROF ha quindi deciso di dedicare questa edizione alla sua memoria. «Oh jour heureux, jour solennel!»: quando il coro intona il tema della breve fanfara, simmetrica e ripiegata su se stessa, che fa da motivo conduttore alle vicende del popolo ebreo, si apprezza la convergenza della direzione di Giacomo Sagripanti e della regia di Pier Luigi Pizzi. Entrambi riescono ad alleggerire la monumentalità della rappresentazione, raggiungendo un equilibrio di forme e di proporzioni in cui nulla eccede. L’Egitto è costantemente presente, ma nei colori, nelle simmetrie architettoniche, negli spigoli di basalto; i miracoli o le sciagure veterotestamentari si materializzano in modo sintetico, senza enfasi ma estremamente leggibili. Il direttore, dal canto suo, non concede nulla alla presunta sacralità della musica, ma neppure alla presunta grandeur dell’oratorio divenuto grand-opéra: le sonorità sono asciutte e i tempi incalzanti; si apprezzano la ricerca dei colori e persino qualche piccolo effetto ironico nelle soluzioni strumentali, contro ogni pregiudizio sul genere di appartenenza della partitura. Magnifico il Moïse di Roberto Tagliavini, che cura il declamato dei recitativi con una cavata ragguardevole e le invocazioni e preghiere con un porgere molto convincente. Tagliavini debutta a Pesaro, ma giunge al ruolo di Moïse forte del cimento in tante parti donizettiane e verdiane che confermano la sua maturità artistica (forse per la stanchezza, ogni tanto si percepisce qualche micro-fessurazione nell’intonazione, solitamente impeccabile). Lo affianca un basso che invece a Pesaro canta dal 2016 come Erwin Schrott nelle vesti di Pharaon: il suo pregevole timbro è più scuro di quello di Tagliavini (ma con un fraseggio meno curato), cosicché i loro momenti di dialogo fanno risaltare le rispettive differenze vocali, a vantaggio della resa drammatica. Anche un soprano di notevole esperienza come Eleonora Buratto debutta finalmente a Pesaro, nella difficile parte di Anaï, che disimpegna con grande successo, soprattutto grazie alle qualità di una voce particolarmente duttile, calda, musicale in ogni fase dell’emissione. Un terzo debuttante al ROF, il tenore Andrew Owens, è Aménophis, ma la sua voce non si proietta molto bene e risulta un po’ piccola (almeno, questo è l’effetto in uno spazio immenso come la Vitrifrigo Arena). Pur vibrante negli acuti, l’emissione è alquanto debole nel registro centrale. Owens è più prudente rispetto alla prima, in cui aveva osato qualche puntatura spericolata; ed è comunque abbastanza corretto nei duetti con Anaï e con Pharaon (sebbene tenda sempre a spianare le agilità). Sinaïde è il mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya, protagonista di un momento molto apprezzato dal pubblico pesarese per l’intensità dell’emissione (ma forse anche perché la sua è l’unica autentica aria solistica della partitura: «Ah! d’une tendre mère» del II atto). Molto buona la Marie di Monica Bacelli, dal fraseggio tornito, mentre risuona un po’ debole l’Éliézer di Alexey Tatarintsev. Enumerare i contributi di Pier Luigi Pizzi al Rossini Opera Festival sarebbe superfluo: basterà dire che dall’indimenticabile Tancredi del 1982, riproposto nel corso di molti anni, fino all’ultimo Barbiere di Siviglia del 2018 (ripreso anche a Novembre 2020, in tempo di pandemia), è stata una continua ricerca di precisione. Come ha recentemente affermato egli stesso, Pizzi non può rinunciare a organizzare lo spazio secondo volumi precisi, con l’obbiettivo dell’essenzialità. In questo Moïse et Pharaon (dopo un Mosè in Egitto nel lontanissimo 1983) si aggiunge però una presenza fresca e spontanea: un bambino che di tanto in tanto appare, un piccolo ebreo che vorrebbe fuggire, ma resta sempre prigioniero di spazi angusti o al di qua di sbarramenti e forze armate nemiche. È il simbolo della speranza dell’umanità, è un segnale che riassume la vicenda narrativa del libretto e le aspirazioni dei protagonisti. Ma, evidentemente, le comparse del bambino sopperiscono anche la mancata materializzazione di Dio, che come al solito è il grande assente in questo tipo di opera. Se si volesse trovare, nella poderosa partitura, un punto di discrimine, fondamentale per intendere l’accostamento musicale e registico, esso sarebbe senz’altro il finale III. Questo numero decide infatti dell’orientamento della regia; quelle di Vick erano interamente politiche, basate sull’ostentazione di un’evidenza soggettiva, o meglio di un’equivalenza (ebrei ed egizi come nomi generici di israeliani e palestinesi di oggi, soprattutto nello spettacolo del 2011). Questa di Pizzi, invece, come dimostrano l’uso insistito della passerella tra fossa orchestrale e pubblico e le incertezze gestuali dei solisti, è molto più letteraria: continua ad arrovellarsi su chi sia il vero protagonista dell’opera, a partire dai rapporti tra i personaggi e i loro cambiamenti emozionali. Di conseguenza, tutta la dimensione corale delle regie di Vick, guerresche e violente, in Pizzi diventa individualista e tesa all’ordine, al rapporto gerarchico, alla definizione dell’eroe: che non è lo ieratico Moïse o l’ignavo Pharaon, bensì Aménophis, l’unico ad agitarsi tra passioni troppo umane, non senza un parziale slancio di nobiltà. Tra gli altri, Pizzi ha anche il merito di avere ampliato le possibilità narrative e di immedesimazione in un carattere solitamente considerato drammaturgicamente secondario: ma proprio a seguito dall’importanza musicale di Aménophis è indispensabile recuperarne anche l’importanza teatrale. Del resto, egli è il tipico personaggio eroico e debole, prigioniero delle forme illustri e solenni che deve interpretare. Ecco perché la regia “individualizzante” di Pizzi si concentra sul duplice duetto tra Aménophis e Anaï come il numero musicale più articolato di tutta l’opera, screziato di temi e dalla struttura complessa, ovviamente perché rappresenta in musica un amore impossibile, condannato dalla religione e dalle convenzioni. Anche le coreografie di Gheorghe Iancu si allineano allo stile registico: lustrale, poco più di una delicata ginnastica artistica quella del I atto, centrata su una coppia quella dei tre Airs de danse del III, finalmente restituiti a una piena dignità musicale (senza battimano o altri effetti mortificanti). Iancu trasforma poi il balletto del III atto in un unico pas de deux, concentrando le idee sulla coppia di amanti e riservando una funzione complementare al resto dei tersicorei (ridotti al numero di quattro). Nel IV atto si compie il prodigio musicale della celebre preghiera, seguita dal passaggio del Mar Rosso e dalla riapparizione del popolo ebreo che intona un ultimo Cantique (espunto, a quanto pare, sin dalle prime rappresentazioni dell’opera): silhouettes nere su fondo bianco sempre più puro, ormai libere e salve, ma proprio per questo allusive a chi è di nuovo prigioniero o perduto. I versi della preghiera si scolpiscono nella memoria, specie quelli che, più che la divinità, raffigurano gli esseri umani e le loro attualissime sciagure: «Souris aux voeux timides | d’un peuple gemissant».   Foto Studio Amati Bacciardi