Recensioni - Opera

Aida originale e coerente per il Macerata Opera Festival

Un’Aida contemporanea e spettacolare, fra riflessioni neocoloniali e una drammaturgia ben calibrata

Aida per un festival estivo all’aperto è di questi tempi una scelta coraggiosa, in quanto opera inevitabilmente legata ad immaginari scenografici e spettacolari tronfi e tradizionali, se non addirittura polverosi. Valentina Carrasco, affrontando il titolo allo Sferisterio, ha azzeccato un buon equilibrio fra modernità, drammaturgia originale e spettacolarità, concependo uno spettacolo interessante e ben organizzato.

La regista imposta un’Aida di ambientazione coloniale, senza definire con precisione l’epoca, occhieggiando soprattutto per il primo atto a suggestioni filmiche, ma anche ai quadri d’arte orientalista, da Ingres fino a Jean-Léon Gérôme, tanto in voga dalla metà dell’ottocento - Aida è del 1870 - fino ai primi anni del novecento. Ne consegue che Radames è un generale al soldo delle potenze coloniali e dell’impero Ottomano, che al tempo esercitava una sorta di protettorato sull’Egitto. Amneris è la ricca figlia del Khedivè d’Egitto, che si dedica a giocare a golf in un idilliaco deserto incontaminato accompagnata dalla sua cameriera, Aida, proveniente evidentemente da una zona remota dell’africa centrale, non ancora influenzata dalla cultura occidentale.

Ramfis, in tunica nera, barba da ayatollah e ciabatte, è a capo di una setta sacerdotale che occhieggia all’estremismo sciita ancora ben presente anche nella nostra contemporaneità. Benedice la spedizione di Radames, suggerendo una combutta fra potere politico laico e estremismo religioso. Amneris si bea nel frattempo della sua ricchezza, facendo un’escursione in un deserto, che ricorda per luci e atmosfere il celebre film di Bernardo Bertolucci. In questo scorcio le semplici, ma efficaci scene di Carles Berga danno il meglio trovando una corrispondenza anche cromatica con l’immenso muro di mattoni che fa da sfondo al palco dello sferisterio. Le coloratissime ancelle, appartenenti alla medesima schiatta di Aida, allietano il quadro mostrando le ruzzanti intemperanze della vera anima africana, risolvendo così in modo originale e nuovo lo spesso trito ballettino degli schiavi mori.

Per ora tutto profuma di sviluppo portato dall’uomo bianco, in pieno stile salgariano, occhieggiante alla letteratura “imperial-coloniale” di tanti romanzi e racconti paternalistici di Rudyard Kipling. Il colpo di scena giunge nel secondo atto, quando la retorica dell’idillio coloniale ammantata di natura selvaggia, esotismo e convivenza pacifica si infrange con la vittoria in battaglia di Radames. Questa vittoria da il via allo sfruttamento più selvaggio delle risorse naturali e culturali dei vinti.

La marcia trionfale e l’ampia musica di ballo è infatti utilizzata per portare in scena un grande oleodotto con tanto di fiamme libere, che deturpa il deserto incontaminato, rivelando la vera natura e crudeltà degli oppressori bianchi. Ovviamente non manca il ballo, azzeccato e originale, ove le popolazioni sfruttate giocano danzando con i barili dell’oro nero che sono incaricati di estrarre. Le coreografie sono di Massimiliano Volponi. Gli Etiopi non sono perciò un popolo sconfitto, ma immigrati costretti a lavorare come schiavi per i padroni.

La rappresentazione prosegue con coerenza anche negli ultimi due atti, in cui Amonasro cerca di far saltare, senza riuscirci, il nuovo oleodotto; mentre nel finale Radames e Aida sono destinati a morire nel deserto, esclusi più che rinchiusi, da una recinzione che crudelmente li condanna ad una morte di stenti, lontano dalla civiltà di sfruttamento che li ha giudicati e rifiutati.

Una proposta insomma ragionata e coerente, in cui si vedono precisi i fili di una drammaturgia ben sviluppata, innovativa, ma anche rispettosa delle esigenze di spettacolarità dovute più alle aspettative del pubblico che all’opera di Verdi. Il voler mescolare epoche diverse genera comunque una certa confusione e forse una maggior coerenza in questo senso avrebbe giovato. Il progressivo modernizzarsi della vicenda, le guardie che arrestano Radames richiamano gli attuali mercenari che operano in medio oriente con tanto di mitra contemporaneo, non sempre è gestita con chiarezza. Nel finale infatti, a fronte di un’Aida e Radames sostanzialmente fuori dal tempo, resta una Amneris ancora decisamente anni venti. I costumi a tratti realistici e a tratti simbolici di Silvia Aymonino sono quasi sempre azzeccati, eccetto per le incongruenze di cui sopra.

Senza arrivare alle precise messe in scena attoriali di certo teatro d’opera d’oltralpe, Valentina Carrasco riesce comunque ad infondere negli interpreti una sufficiente credibilità, suggerendo ad Amneris e Radames di giocare a golf nel primo atto, o caratterizzando Aida con movimenti eccessivi tipici di certe movenze centroafricane. Alcuni riferimenti avrebbero potuto essere più precisi o meglio esplicitati. Il coro, di contro, veniva disposto in modalità sostanzialmente classiche anche se con effetti suggestivi, grazie al frequente uso di lumi e torce.

Nell’insieme prevale, in un ambito sicuramente originale, una certa propensione ad illustrare la storia senza prendere posizione. Manca, e sarebbe d’uopo in questo tipo di proposta, il guizzo trasgressivo, anche provocatorio, volto ad illuminare e rendere pregnante i molti spunti presenti nella regia. Un po’ più di coraggio non avrebbe stonato in questo senso.

Buono, anche se non eccelso, il versante musicale. Francesco Lanzillotta dirigeva con piglio teatrale l’Orchestra Filarmonica Marchigiana, staccando tempi corretti e sonorità spettacolari adatte al contesto dell’arena sferisterio. Una buona direzione la sua, teatrale e consapevole, con una grande attenzione alle esigenze del canto. Tutti i cantanti si impegnavano a fondo regalandoci una bella recita, appassionata e coinvolgente.

Svetta su tutti l’Amneris potente e verace di Veronica Simeoni, che sfoggia voce sicura, timbrata e facile all’acuto, con accenti drammatici di stampo quasi verista, per un’interpretazione coinvolgente e a tutto tondo molto festeggiata dal pubblico. Luciano Ganci è un Radames di bello squillo e fraseggio accurato, prudente nella romanza d’apertura, migliora via via per dare il meglio nel terzo e quarto atto. Al suo fianco l’Aida di Maria Teresa Leva si distingueva per note filanti e sicurezza negli acuti, pur difettando di precisione nel fraseggio e con un passaggio al registro medio spesso non ben calibrato in cui si evidenziavano anche problemi di sonorità. Preciso e omogeneo l’Amonasro di Marco Caria, che riusciva a dare risalto al personaggio grazie ad un fraseggio accurato, vario, ficcante. Alessio Cacciamani è stato un Ramfis corretto e ieratico, da cui ci saremmo aspettati maggiore sonorità nelle note gravi; mentre Fabrizio Beggi ha delineato un Re dalla vocalità potente, omogenea in tutti i registri e ben impostata. Ottimi anche Francesco Fortes (Messaggero) e Martina Tampakopoulos (Una Sacerdotessa).

Vivo successo per tutti gli interpreti a fine serata.

R. Malesci (01 Agosto 2021)