Pesaro, Rossini Opera Festival 2019: “Demetrio e Polibio”

Pesaro, Teatro Rossini, Rossini Opera Festival 2019, XL Edizione
“DEMETRIO E POLIBIO”
Dramma serio in due atti di Vincenzina Viganò Mombelli
Musica Gioachino Rossini
Revisione sulle fonti della Fondazione Rossini in collaborazione con Casa Ricordi a cura di Daniele Carnini
Linsinga JESSICA PRATT
Demetrio (Siveno) CECILIA MOLINARI
Demetrio (Eumene) JUAN FRANCISCO GATELL
Polibio RICCARDO FASSI
Filarmonica Gioachino Rossini
Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini
Direttore Paolo Arrivabeni
Maestro del Coro Mirca Rosciani
Regia Davide Livermore
Ripresa da Alessandra Premoli
Scene e costumi Accademia di Belle Arti di Urbino
Luci Nicolas Bovey
Pesaro, 18 agosto 2019

È molto istruttivo passare dall’ascolto di Semiramide, ultima opera del periodo italiano, a Demetrio e Polibio, probabilmente composto nell’estate del 1810 e dunque titolo inaugurale del catalogo teatrale rossiniano. Non tanto per il solito esercizio di ricerca dei prodromi, delle anticipazioni, delle intuizioni germinali che si sarebbero sviluppate poi con altro splendore (tutte ovvietà, nel caso di un’intelligenza geniale e precoce come quella di Rossini), quanto per apprezzare un esempio di teatro musicale italiano dei primi anni dell’Ottocento, e verificare ancora una volta come la musica potesse vitalizzare un libretto di ascendenza metastasiana, scarno e apparentemente povero di personaggi, di ambientazione orientale (ancora l’Assiria, oltre al regno dei Parti), con antefatti complicati, caratteri en travesti, identità misteriose e tensioni verso l’agnizione finale (in questo caso lieta e pacifica). Sebbene sia opera di un esordiente, nessun interprete può sottovalutare i numeri di Demetrio e Polibio e la loro qualità artistica; sin dal primo duetto, per esempio, la cabaletta «Laccio sì caro» richiede al mezzosoprano e al basso il piglio e la baldanza di analoghe pagine nelle opere a venire. Parimenti, il duetto basso-tenore, sempre nel I atto, presenta altra cabaletta che si articola in tre sezioni, rapide ma niente affatto elementari; lo stesso si può dire anche dell’aria di Eumene, «All’alta impresa tutti», che tocca il culmine drammaturgico del I atto (scena notturna, rapimento dell’eroina, incendio del palazzo), e del finale I, complesso e comprendente un’arietta di Lisinga, un duettino, una scena concitata … In mancanza dell’autografo, e a fronte di una tradizione manoscritta alquanto intricata, alla base dell’esecuzione non è ancora una “edizione critica” secondo le norme della Fondazione Rossini, bensì una “revisione” di tutte le fonti, come illustra Daniele Carnini nel programma di sala. Non è possibile stabilire con certezza se tutti i numeri della partitura siano attribuibili a Rossini: quasi certamente la sinfonia e le arie di Siveno, «Perdon ti chiedo, o padre», e di Eumene, «Lungi dal figlio amato», entrambe nel II atto, sono di mano di Domenico Mombelli, il musicista e tenore committente insieme alla consorte librettista. A proposito del milieu famigliare in cui nasce il progetto di affidamento della composizione al giovane Rossini, appare naturale che il libretto dell’ex danzatrice Vincenzina Viganò (sorella del celebre Salvatore) sia ancor più scarno di una pièce metastasiana e popolato di soltanto quattro personaggi eroici (due dei quali agiscono sotto falsa identità); il marito, del resto, aveva esordito come compositore proponendo un’immancabile Didone a Crescentino nel 1776. Comunque fosse, Rossini si dedicò a quest’opera seria con un principio di impegno e al tempo stesso di libertà, destinato a svilupparsi sempre più: a titolo esemplificativo, due soltanto sono le scene di recitativo secco (una nel I, l’altra nel II atto), mentre il resto dell’azione è accompagnato da rifiniti interventi orchestrali. Paolo Arrivabeni, alla guida della Filarmonica Gioachino Rossini, evidenzia la ricchezza delle dinamiche e la varietà dei ritmi, se non proprio dei colori orchestrali; e con la nettezza di accordi, inesorabili come sferzate, sottrae qualunque impressione di immaturità o di ingenuità alla musica e al dramma, vincolando con forza gli affetti dei personaggi e la loro traduzione sonora. Primadonna del quartetto vocale è Jessica Pratt, che ritorna a Pesaro dopo alcuni anni di assenza (dai tempi della Morte di Didone del 2015), e che riscuote il successo più entusiastico da parte del pubblico, soprattutto dopo la florida aria del II atto, «Superbo, ah! tu vedrai». La voce della Pratt è sempre piacevolmente pastosa: sa alleggerire l’emissione, ma quando la tessitura lo richiede (ed è frequente) sfodera solide note acute. In effetti, la parte di Lisinga è irta di agilità e di puntature, che il soprano affronta con tecnica sicura e buona intonazione (si nota soltanto qualche smagliatura nel timbro in occasione di sopracuti ed emissione di forza). Cecilia Molinari ricopre il ruolo del giovane principe assiro Demetrio, creduto Siveno, e canta con voce fresca e appassionata, fraseggiando con molta espressività. L’ottimo tenore Juan Francisco Gatell (di cui il pubblico del ROF ricorda un magnifico Almaviva nel 2012 e nel 2014) dà voce al Demetrio del titolo, re di Assiria: con un’emissione piena e compatta e un timbro divenuto negli anni più scuro, Gatell si misura con tutte le difficoltà della parte (che fu di Domenico Mombelli) differenziando adeguatamente gli affetti nei vari momenti dell’opera. Sempre incisivo e molto corretto nella linea vocale il Polibio del basso Riccardo Fassi. Professionale ed efficace, specialmente nel concitato finale I, il Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini, diretto da Mirca Rosciani. Lo spettacolo, musicalmente molto pregevole, si completa con la regia di Davide Livermore, risalente alla produzione ROF del 2010, che si conferma felice trasposizione della vita dentro il teatro, quella che il pubblico usualmente non può vedere. Al termine di uno spettacolo, dopo che un pompiere ha chiuso l’interruttore generale della luce, si animano i fantasmi della famiglia Mombelli, sostanzialmente per testimoniare i lori eterni affetti e l’amore per la musica. Nel buio del dietro palcoscenico i personaggi rivivono grazie alla magia del fuoco e degli stessi strumenti musicali; non c’è malinconia, anzi predomina un ingenuo entusiasmo, quasi fanciullesco, simile all’affetto che lega Lisinga e Siveno, mentre la spettacolarità è ironicamente richiamata da numeri di prestidigitazione, tra bauli, attrezzi di scena, vestiario teatrale e quinte mobili. Una storia parallela a quella tanto astratta del libretto (se in Semiramide il tema più scabroso è la maternità assassina, qui è invece la paternità contesa), ma con notevoli punti di tangenza, come quando, nel finale I, l’incendio del palazzo di Polibio si traduce nell’incendio del magazzino teatrale della nuova ambientazione. Grande maestria scenica e dichiarato amore per l’illusione teatrale: che chiedere di più, per avviare il Rossini giovinetto verso la gloria?   Foto ROF © Studio Amati Bacciardi